Conservare nella memoria, la necessità di non dimenticare: luoghi, ricordi, date, personaggi. Per non dimenticare la necessità di ricostruire il passato.
Ricordare per amore, perché l’immagine custodita non è solo la fredda descrizione di un evento associato a una data, ma è un insieme caldo e ancora commovente che fa riferimento a momenti di vita, propria o altrui, che ci hanno una volta coinvolto e che ancora sanno darci emozioni. A volte sono emozioni piacevoli, a volte dolorose, ma entrambe sono testimoni di qualche cosa di importante per noi, qualche cosa che ci fa dire.
Ricordare per crescere, per fare tesoro dell’esperienza passata e scegliere, di conseguenza, come organizzare il proprio futuro. Nel giorno della memoria, non ci focalizziamo sul passato, ma soprattutto sul futuro, da creare consapevolmente grazie a quanto imparato da quanto è successo.
I Romani e L’Oltrepò
Come ampiamente indicato nei musei di Casteggio e Stradella, l’Oltrepò Pavese ha avuto una influenza notevole e determinante da parte dei Romani che portarono fino ai nostri giorni grandi testimonianze del lavoro, delle strade, dei villaggi, e della vita quotidiana. La maggior parte di queste testimonianze si ricercano lungo la Via Postumia (l’attuale via Emilia), del quale Casteggio ha avuto una importanza fondamentale, essendo un centro strategico per le milizie Romane. La storia di questi luoghi dice poi che Annibale (abbiamo già citato la Fontana di Annibale a Casteggio) è stato certamente in queste zone e sicuramente ha combattuto in questi luoghi, famosa è la battaglia sul Fiume Trebbia che vide Annibale vittorioso sui Romani. La fornace di Massinigo, ritrovamento di assoluto valore archeologico, segno e conferma che quella che collega Massinigo al Convento di Vallescura, sembra sia il passaggio per l’Abbazia di Bobbio, dove troviamo il famoso ponte Gobbo ancora adesso una immagine stupenda di questo luogo incantato.
Santa Margherita di Staffora, località Masinigo, Fornace Romana
A Massinigo però è stata fata una importante scoperta che ha aperto la via a preziose supposizioni ma anche a tante certezze, del passaggio dei Romani i questi luoghi, ma non solo, certifica in qualche modo tutta una serie di testimonianze di vita e transiti di milizie, di pellegrini, di commercianti, mi riferisco alla Alta Valle Staffora dove Massinigo è posizionata. Stiamo parlando della Fornace Romana di Massinigo, ritrovata nel 1957 durante i lavori di ristrutturazione della scuola elementare, rappresentando uno dei siti archeologici di epoca romana meglio conservati in Lombardia e unica nel suo genere in tutto l’Oltrepò Pavese. La fornace è a forma circolare con tiraggio verticale e rappresenta ciò che rimane del piano di cottura, con la imbocco dentro il quale veniva immesso il legname da bruciare, ed alimentare il fuoco che serviva alla cottura e produzione essenzialmente di laterizi . Il visitatore può richiedere la visita telefonando al Comune di santa Margherita Staffora, e si troverà ad entrare nell’edificio che un tempo era la vecchia scuola e, dietro una vetrata potrà ammirare questo prezioso manufatto. Storie
Il Convento di Vallescura
Proseguendo sulla strada che collega Massinigo al Passo della Scaparina ci imbattiamo in un luogo davvero incantevole, le cascine dei Roncassi oggi centro di villeggiatura e sportivo “Pernice Rossa”. Si dice ma sembra ci siano delle carte che lo confermino, che le cascine siano state costruite con i sassi di un convento, con annesso xenodochio, di Vallescura. Il luogo si individua, ma restano solo pochi sassi, nelle alture nei pressi del centro di villeggiatura, un sentiero in fronte ci porta nelle sue vicinanze. Qui la storia ci lega ancora a Massinigo e alle memorie popolari degli abitanti, che ne indicano la storia forse mista a qualche piccola leggenda. Il luogo dove era posizionato lo xenodochio è chiamato Cusciö dii frè (tradotto il promontorio dei frati, e il luogo dove era posizionata la chiesa è chiamto gisòn, il chiesone. Di questi luoghi si lega e si intreccia anche la storia del toponimo del vicino Passo della Scaparina, una curiosa leggenda che ha dato il nome al passo: si dice che una fanciulla di nome Rina, criuscì a fuggire avventurosamente: di qui il nome “Scapa Rina”, forse perchè condotta a forza nel convento, o forse per scappare da una improvvisa tormenta che colpì questi luoghi, indicendo (si dice) ad abbandonare questi luoghi. Una preziosa testimonianza è quella di Caterina, abitante di Massinigo che, un poco in dialetto e un poco in italiano, ha cercato di spiegarmi. Forse ero più impacciato io che Caterina!! Ora Caterina, da quanto mi hanno detto, non c’è più con noi….. grazie di cuore Caterina. Ecco il video
Hospitales”, Xenodochi, Conventi, Ospedaletti
Mi sono immaginato alcuni pellegrini provenienti da luoghi diversi, prendere la loro borsa ed il lungo bastone, avventurarsi dalla Via Postumia sui crinali dell’Oltrepò Pavese, verso i vari punti di ristoro, xenodochi e hospitales, raggiungere Bobbio, per poi intraprendere il cammino verso Roma. Bobbio è stato il fulcro di questi pellegrinaggi, richiamando le genti delle valli limitrofe, che trovavano nel Monastero la naturale tappa, sia per pregare, che per riposare. Vennero così creati nei punti strategici del cammino, una serie “hospitales”, xenodochi, conventi, ospedaletti, atti ad ospitare i viandanti, per le soste intermedie, o cure mediche e punti di ristoro. Le strade più importanti si possono sicuramente individuare nelle strade provinciali odierne, che raggiungono i colli e passi naturali, mentre per i sentieri la cosa si diventa più complicata, allora è con lo studio, la ricerca ed il ritrovamento di reperti direttamente sul terreno, che si può ricostruire quelle che un tempo erano le vie di comunicazione principali. Si fanno supposizioni ma alimentate da prove identificate sulle mappe antiche e sugli scritti autentici di allora; in una colleana di libri molto belli, ma soprattutto molto dettagliati, ricchi di documenti e molto veritieri, di Fiorenzo De Battisti “Storia di Varzi” , nei quali si spiega di alcuni punti strategici, quali xenodochi (ad esempio nei pressi di Varzi a Casa Cagnano, uno a San Silverio (vicino a Trebecco), a Ranzi (sempre nei pressi Varzi che era considerata una “corte”, il convento di San Giacomo, nei pressi della già citata Fonte di San Giacomo, che alcuni vogliono come la sorgente del torrente Staffora, dove si trovano alcune lastre che ne indicavano la esistenza, ed il convento di Vallescura, nei pressi del Passo della Scaparina, punto strategico per il passaggio e la discesa verso Bobbio, A Redavalle si trovava uno xenodochio, che serviva da tappa per i pellegrini che si avventuravano verso Bobbio dalle colline dell’Oltrepò Orientale.
Vedi Montebello della Battaglia e Casteggio
La battaglia di Casteggio-Montebello 9 Giugno 1800
Il periodo si inserisce durante la seconda campagna di d’Italia condotta da Napoleone Buonaparte. Le truppe francesi, condotte dal Generale Lannes, con l’aiuto decisivo del generale Victor, sconfissero le truppe austriache del generale Ott, nel tratto che da Casteggio porta a Montebello, tra laconfluenza del Torrente Rile e il Torrente Coppa. Gli Austriaci, nei pressi di Casteggio, ebbero la meglio sulle truppe del generale Lannes, ma in suo aiuto arrivarono le truppe del generale Victor proveniente da Stradella. Gli austriaci ripiegarono a Montebello ma, nella piana e le prime alture tra Casteggio e Montebello, il generale Lannes, alla guida delle truppe francesi (sebbene il generale Victor fosse più alto in grado), sconfissero definitivamente le truppe austriache, con una battaglia cruenta, con molte perdite tra le due parti, che riuscirono ad arrivare fino a Genestrello (una palla di cannone è ancora incastonata nelle chiesa di Genestrello. Gli austriaci ripiegarono definitivamente a Voghera.
La battaglia di Montebello 20 Maggio 1859
Tra le tante battaglie combattute in Oltrepò Pavese, la più famosa è senza dubbio quella di Montebello del 20 Maggio 1859, che ha dato il nome al paese. L’Ossario, appena usciti da Montebello verso Casteggio, è stato eretto a memoria dei molti caduti nel 1864. L’Ossario è raffiguarato da un statua imponente raffigurante l’Italia con un ramo d’ulivo sulla destra e il tricolore sulla sinistra. La battaglia Viene ricordata una volta l’anno con una cerimonia commemorativa una volta l’anno, e la cosa interessante è la presenza delle tre parti in guerra, Austria, Francia e Italia. Entrando poi in paese, da Via Morelli, colonnello delle truppe Piemontesi, si arriva in Piazza Indipendenza dove si trova il Monumento al cavalleggero, a ricordo dei reggimenti della cavalleria piemontese, raffigurante appunto un cavalleggero con la sciabola sguainata. Infine, appena sotto il Castello Premoli, nei pressi di una scalinata intitolata al generale francese Beuret, si vede una granata, sparata dall’artiglieria francese. La seconda battaglia di Montebello è la più nota anche perché avvenne durante la seconda guerra d’indipendenza, tra gli Austriaci e la coalizione Franco-Piemontese. La battaglia fu cruenta e tra i caduti vi furono il generale Beuret, tra i francesi, e il colonnello Morelli, comandante del Reggimento dei Cavalleggeri di Monferrato.
GARIBALDI A MONTEBELLO DELLA BATTAGLIA
Sembra che Montebello della Battaglia sia stata un punto di collegamento della storia dell’Oltrepò Pavese, ma soprattutto della storia Italiana, vuoi che due battaglie famose: “La battaglia di Casteggio-Montebello 9 Giugno 1800” e “La battaglia di Montebello 20 Maggio 1859”, hanno segnato tappe fondamentali della nostra Indipendenza. Partendo da una visita di Giuseppe Garibaldi, qui a Montebello della Battaglia, anno 1860, che poi ritornò nel 1866 per una visita più lunga, nella Villa Pallavicino Trivulzio (oggi Mazza), vogliamo portare alla luce quanto questa imponente villa sia stata attraversata da storie che hanno portato alla indipendenza dell’Italia. Certo non sarà la villa ad aver fatto la storia da chi via ha preso dimora, il Marchese Luigi Pallavicino Trivulzio, personaggio storico ed amico di Garibaldi, che ha avuto,durante questo storico periodo, una vita senza dubbio movimentata. Aderì alla Carboneria, per poi passare dalle famose carceri della ex-fortezza morava dello Spielberg (descritte dal Silvio Pellico nel suo libro “Le mie prigioni”), per poi riunirsi alla lotta di liberazione spostandosi in Oltrepò Pavese, acquistando la villa che portò il suo nome.
La cavalleria, la Chiesa Rossa di Voghera, Il Tempio Sacrario della Cavalleria Italiana
La visita di Maria Gabriella (visualizza il ritaglio del giornale dell’epoca TempioCavalleria_giornale1) (secondogenita di Maria Josè e di Umberto e sorella di Vittorio Emanuele) ospite, nella lussuosa villa di Rocca de Giorgi, dei Conti Giorgi Vimercate di Vistarino, in visita al Tempio. Maria Gabriella poi diede la mano ad un bambino, supportata da una piccola nota e da alcune immagini, questo per ricordare un piccolo episodio che mi vede coinvolto assieme alla mia mamma.
Qualche nota di storia del Tempio (A gentile concessione del Priore del Tempio Sacrario della Cavalleria Italiana, il Generale Dario Temperino)
Motivi sentimentali, uniti al desiderio di degnamente onorare l’Arma, fecero sorgere, forse già nel 1951 allorché la città allestì con entusiasmo la “Mostra della Cavalleria Italiana”, l’idea di realizzare in Vogherà il Tempio Sacrario.
Il Tempio nacque quindi da una iniziativa della sezione culturale dell’Ente pro Oltrepò che, d’intesa con la Presidenza Nazionale dell’Associazione Nazionale dell’Arma di Cavalleria, portò la proposta al vaglio del Consiglio Comunale, il quale, con delibera del 24 giugno 1952, destinava la “Chiesa Rossa” a Tempio Sacrario col titolo di S. Ilario, l’antico patrono, e di S. Giorgio celeste patrono dei cavalieri italiani.
Il 15 settembre 1952 i reparti in armi e tutte le sezioni dell’Associazione venivano informati che con apposita delibera era stata decisa l’istituzione del Tempio; pertanto detta decisione rappresenta il vero e proprio atto di nascita dell’ente. Con le prime offerte si dava inizio nella primavera del 1953, sotto il controllo della Soprintendenza ai Monumenti della Lombardia, all’opera paziente di restauro.
La chiesa, la più antica di Voghera, viene fatta risalire, ma non vi sono elementi probanti, al IV secolo. Alcuni datano la fabbrica A.D. 732 attribuendone la fondazione al Re longobardo Liutprando; l’appiglio a questa tesi è offerto da un’anonima annotazione posta nell’inventario, datato 1877, dell’ufficio tecnico comunale.
Il perché e su quali basi storiche sia stata redatta non è dato sapere; quasi certamente ciò fu dettato dal convincimento ottocentesco che considerava monumenti longobardi edifici chiaramente di stile romanico pavese.
Il motivo per cui la chiesa fu dedicata a S. Ilario è ignoto; forse si è voluto onorare un Santo che tanta parte ebbe nella condanna al movimento eretico di Ario e che con le sue tesi permise nel VII sec. ai Longobardi l’abbandono progressivo dell’eresia. Altre fonti identificano Ilario nel Vescovo di Pavia (358-376), quindi contemporaneo del primo, di cui storicamente non è provata l’esistenza, anch’esso santo e fustigatore della dottrina ariana.
Altra leggenda vuole la chiesetta sorta sul su un Locus Sacer su cui posavano i resti di un tempio pagano.
Non lontano dalla verità l’ipotesi che prima del mille sia esistita una chiesuola, che successivamente sia stata rimaneggiata o comunque trasformata nell’attuale edificio in stile romanico. La costruzione sorgeva entro proprietà terriere del monastero di S. Maria e Aureliano di Pavia, volgarmente detto del Senatore, che aveva succursale in Vogherà con propri edifici anche alla Porta di S. Ilario.
I primi documenti risalenti al XII sec. testimoniano, unitamente a quelli dei sec. XIII – XIV, che la chiesa di S. Ilario fu indipendente dall’ingerenza temporale e spirituale della Curia di Tortona e della Pieve di S. Lorenzo di Voghera.
Va detto che la presenza del monastero a Porta S. Ilario fu determinante allo sviluppo urbanistico della zona, che ebbe nei possedimenti delle suore tutte quelle strutture produttive (forni, mulini, torchio, ecc.) che ne fecero un centro di potere finanziario, determinando così anche diatribe con il comune di Vogherà, composte nel 1230 con l’arbitrato del Podestà di Pavia
Scarsissime le testimonianze riguardanti i sec. XV – XVI – XVII; per lo più trattasi dei rapporti intrattenuti dal cenobio con il comune di Vogherà a proposito di diritti, doveri e affitti, (tracce nell’archivio civico – notarile).
Circa l’esercizio del culto o di una presunta sconsacrazione giova ricordare che tra il 1445 e il 1533, e cioè per quasi un secolo, si trovano annotazioni relative al pagamento di somme spettanti al sacerdote concelebrante la Messa in occasione dell’anniversario di S. Ilario. Altra notizia che conferma l’attività religiosa, datata 1543, riguarda l’invito rivolto dal sindaco Bonamici, su istanza della Badessa, al Consiglio Comunale a che questi doni all’oratorio, in sostituzione di quella a suo tempo asportata da rappresentanti del comune, una campana di piccole dimensioni necessaria per l’uffizio divino che si celebra nei giorni festivi.
Situazione del tutto mutata nel 1561. Dai documenti di una visita pastorale si legge: “La cappella è stata abbandonata”, cosa questa che viene anche confermata negli scritti relativi alla diatriba con la curia di Tortona a proposito di decime; oltretutto la comunità monastica di S. Ilario rientrò definitivamente a Pavia nel 1563, per disciplina alle disposizioni del concilio di Trento.
Quanto sopra ci induce a credere che l’edificio fosse in decadenza e che probabilmente in quegli anni le mura presentassero lesioni e crepe. Durante la peste detta di S. Carlo – 1630 – nel cimitero annesso e nella stessa chiesa trovarono riposo i borghigiani deceduti a seguito del morbo.
E’ molto dettagliata la relazione sull’edificio redatta a seguito della visita del Vescovo Andujar nel 1754 . Lo stato della infrastruttura descritto è simile a quello testimoniato dalle foto scattate nel 1932 in occasione del sopralluogo commissionato dalla Sopraintendenza.
La sconsacrazione definitiva ci fu in epoca napoleonica, a seguito della confisca dei beni religiosi, e l’immobile con i terreni annessi divennero proprietà del Comune. Dapprima S. Ilario servì da magazzino; in seguito, come riportato nell’inventario redatto nel 1877 dall’ufficio tecnico – comunale: “da oltre un secolo non fu più officiata e serve da deposito delle polveri piriche del Distretto Militare”.
Risale al 1878 la totale demolizione dell’abside.
Solamente nel 1916 ci si rese conto dello scempio fatto e che era necessario salvaguardare il monumento da ulteriore degrado; le vicende belliche non consentirono di por mano al progetto.
Al termine della l^ Guerra Mondiale iniziarono i lavori per il recupero della struttura originaria; infatti a causa delle piene dello Staffora era stato giocoforza rialzare i pavimenti e di conseguenza i muri perimetrali, la copertura inoltre era stata trasformata a volte rinascimentali.
Il 27 gennaio 1933 la Soprintendenza, dopo un sopralluogo, dette il beneplacito ai lavori per il restauro analogico, lavori che si protrassero sino al 1938; la ricostruzione dell’abside avvenne nel ’37 o ’38. Le vicende belliche connesse al secondo conflitto mondiale determinarono, purtroppo, una sosta forzosa.
Con la delibera comunale datata 24 giugno 1952 che accoglieva l’istanza di destinare la “Chiesa Rossa” a Tempio Sacrario della Cavalleria Italiana, iniziavano i definitivi lavori di ripristino e quindi la riapertura al culto.
La chiesa al termine dei lavori si presentava così come oggi appare: “Facciata quadrata di 8,10×8,10m, tetto a due spioventi con cornice a dente, sotto un ordine di archetti pensili che incastona una decorazione di piatti in ceramica colore verde antico.
La luce entra da un’apertura a croce posta sopra la bifora che in origine era una trifora, al di sotto il portale ad arco semplice a tutto sesto.
Sui fianchi due porticine anch’esse a tutto sesto e tre finestrelle per lato strombate all’interno; completano il ritmo delle luci tre identiche finestrelle nell’abside, il tutto sormontato da un campanile a vela, di epoca certamente posteriore alla costruzione ma comunque anteriore agli interventi seicenteschi”.
Nelle antiche celle campanarie fu sistemato un concerto di tre campane dedicate: una alla Vergine e le altre rispettivamente a S. Giorgio e S. Ilario. Il battesimo delle campane ebbe luogo in forma semplice il 4 settembre 1955, allorché la contessa Jolanda Calvi di Bergolo visitò il Tempio: dopo la formula di rito e la benedizione impartita da un sacerdote, la madrina, con un colpo di martello, fece vibrare i tre nuovi bronzi.
La struttura architettonica, anche se modesta, ma organica ed esemplare, richiama gli stessi schemi della Pieve di S. Zaccaria presso Godiasco e delle chiese di S. Michele, S. Lanfranco e S. Lazzaro di Pavia.
Il 21 aprile 1956 il Tempio venne riconsacrato ed il giorno successivo, presenti i sette Stendardi dei Reggimenti ricostituiti nel dopoguerra, celebrante il cardinale Piazza, già cappellano militare dei “Cavalleggeri di Padova” (21°), venne inaugurato dal Capo dello Stato On. Giovanni Gronchi.
Il Tempio dalla sua costituzione, a somiglianza degli ordinamenti di alcuni antichi Ordini Cavallereschi, è retto da un Priorato, che ha, oltre ai compiti amministrativi, quello di tener vivo il ricordo dei Caduti dell’Arma.
Un fitta rete di musei ci permette di inquadrare in modo inequivocabile la storia, la geologia, le tradizioni, il lavoro e la cultura. In ciascun museo si assaporano profumi d’altri tempi non molto lontani. Oggi noi abbiamo qualsiasi tipo di elettrodomestico, ma allora qualsiasi cosa era fatta e costruita con l’ingegno e con le poche cose che ci circondavano e soprattutto con il lavoro duro nei campi, oggi sostituiti da mezzi ed accessori che hanno completamente sostituito, migliorato e alleggerito il peso di questi lavori. Tutto ciò non può essere liquidato e dimenticato, è necessario ricordare e trasmettere ai più giovani la memoria di tutti questi attrezzi, utensili e macchine artigianali, come segno indelebile delle radici della cultura rurale d’Oltrepò Pavese e delle Quattro Province. Questi musei fanno parte del catalogo del Sistema Museale della Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese ed hanno in comune l’amore e la tradizione, infatti gli attrezzi della tradizione contadina, rurale, vinicola e familiare e l’amore per questi oggetti fanno parte di ciò che abbiamo seminato e raccolto. Poi ci sono i musei facenti parte del Sistema Bibliotecario Integrato allo scopo di rendere visibili i Musei d’Oltrepò Pavese in un percorso didattico rivolto a tutti ma soprattutto alle scuole, che comprende La Natura, l’Archoelogia, L’etnografia e la Storia dell’Oltrepò Pavese. Fuori dal coro di questi due grandi blocchi troviamo il museo a cielo aperto di Ponti, il museo della Fisarmonica Mariano Dallapè ed il Magazzino dei Ricordi di Zavattarello. La tabella riporta tutto il sistema museale e le informazioni di base per poter progettare una visita. Orari, giorni visita di visita sono stati forniti al momento delle mie visite ai musei, passibili di cambiamenti, quindi meglio chiamare e contattare ciascun museo al momento della visita.
Nelle pagine dedicate ai paesi si possono vedere le clip video.
Sulla Mappa Digitale si può vedere la paosizione.
La ferrovia Voghera Varzi, Il trenino della valle Staffora
Ricordare per non dimenticare è la prorità per poter recuperarne la traccia e dedicare questo tratto al turismo cicloturistico.
Da sempre in questi luoghi si parla di Greenway, percorso che da Milano corre fino al mare attraversando la Valle Staffora, solo ora si sta muovendo qualcosa.
E’ stato ultimata con una ciclabile (Greenway) il tratto da Voghera porta a Varzi.
Alcuni video (le immagini sono antecedenti alla costruzione della Greenway)
Le stazioni della ex Ferrovia Voghera – Varzi
del tratto Voghera-Codevilla
del tratto Codevilla-Salice Terme
Cicloturistica – Staffora e Ferrovia, prima tappa, da Voghera a Salice Terme
Cicloturistca Staffora e Ferrovia, seconda tappa, da Salice Terme a Ponte Nizza
Cicloturistica Staffora e Ferrovia, terza tappa, da Ponte Nizza a Varzi
Recuperare la ferrovia
Il Trenino della Valle Staffora, ricordare per non dimenticare
L’Oltrepò Pavese è ricco di storia. Non si può dimenticare la ferrovia Voghera-Varzi. Chi scrive è nato nel 1958 e per qualche anno è riuscito a godere della Valle Staffora, dei paesi e delle stazioni ferroviarie, proprio dai finestrini del trenino verde, che correva lento da Voghera fino alla Stazione di Varzi. Lì mi aspettava la mia nonna, sempre con un piatto di agnolotti, qualche fetta di salame in mezzo ad un meraviglioso miccone di pane e un pezzetto di torta di mandorle. Se poi si prende in considerazione il tratto da Voghera a Bobbio, è sempre stato interessato da fatti storici e da progetti volti alla costruzione di tratte viabili. La storia è maestra, come sempre. Basti pensare alle vie dei Pellegrini che volevano raggiungere l’Abbazia di Bobbio; o alle Vie del Sale, percorse da mercanti e briganti; o ai numerosi tentativi di aprire nuove strade per raggiungere i due passi cruciali per questi luoghi: il Passo Penice e il Passo del Brallo. Ritornando però alla ex Ferrovia Voghera-Varzi, ci piace ricordare che fu inaugurata il giorno di Natale del 1931 ed entrò in funzione due giorni dopo. Fu purtroppo soppressa il 31 Luglio del 1966, sostituita dalle autolinee che funzionano ancora adesso. Era stata realizzata per servire la Valle Staffora e i tanti pendolari che dovevano recarsi a Milano a lavorare; per i turisti; per i valligiani che, pur abitando a Milano, non potevano né volevano rinunciare ad un fine settimana con i parenti e gli amici di un tempo; e infine per rendere più facile il lavoro di alcune aziende che si trovavano lungo il tragitto della ferrovia. La stazione di partenza era Voghera: la si può vedere ancora oggi sulla destra entrando nel viale alberato della stazione: dopo aver attraversato il ponte sullo Staffora e la statale per Piacenza, entra tra i campi coltivati fino a raggiungere la stazione facoltativa di Torrazza Coste, ora divenuta abitazione privata. Ultimo passaggio nei campi fino ad arrivare alla stazione di Codevilla, prima vera fermata, nei pressi del paese. La stazione esiste ancora anche se si trova in pessime condizioni. Da qui, dove proprio di recente è stata costruita una pista ciclabile, si arriva alla stazione di Retorbido, all’imbocco del paese, dove finisce la pista ciclabile; la stazione… la possiamo vedere nel colore tipico (giallo intenso) all’interno di una costruzione privata. Ora la tratta, che diventa sentiero, costeggia la statale per tutto il pezzo che arriva alla Stazione di Rivanazzano Terme: si può ancora vedere con le scritte originali, anche se è un’abitazione privata. Ora i binari attraversavano la statale ex 461 del Penice per passare a costeggiare fino a Varzi a sinistra la stessa statale e sulla destra il Torrente Staffora. Passando per un breve tratto dove oggi ci sono i campi da golf, si arriva alla stazione di Salice Terme, divenuta oggi un ristorante con l’omonimo nome. La ferrovia arriva alla stazione di Godiasco, ora sostituita dalle poste. Se entriamo in paese, notiamo una pista ciclabile che ha sostituito la sede dove un tempo scorrevano le rotaie, così fino alla parte opposta del paese. Si passano le stazioni di San Desiderio e quella di Pozzol Groppo, posta proprio sul bivio per Biagasco e Pozzol Groppo. Si passa poi alla stazione di Cecima, nei pressi del ponte sullo Staffora. La stazione di Ponte Nizza è ben visibile al centro del paese, all’imbocco della provinciale per la Val di Nizza. Da qui parte una pista ciclabile di recente costruzione che porta alla stazione facoltativa di San Ponzo Semola sul bivio del paese. Il sentiero sede della ferrovia prosegue fin quasi alla stazione di Bagnaria all’inizio del paese. Da Bagnaria il sentiero porta, costeggiando la statale, passando la ormai diroccata stazione di Ponte Crenna, fin quasi a Varzi dove lasciamo il sentiero; solo al bivio per la Chiesa dei Cappuccini, si rientra per arrivare, dopo quasi un’ora, alla vicina stazione di Varzi, ormai irriconoscibile perché sono state costruite delle palazzine. Rimane solo l’autorimessa delle autocorriere, un tempo usata per le carrozze.
“Mai come oggi la gente e gli amministratori della Valle Staffora e dell’Oltrepò Pavese si stanno rendendo conto quanti e quali danni, sotto il profilo sociale ed economico, abbia provocato la soppressione della storica linea ferroviaria Voghera-Varzi. Nella memoria collettiva, il trenino verde continua però a rivivere nell’animo delle persone che hanno usufruito di quel mezzo di locomozione e anche nell’immaginazione di chi non ne ricorda che il mitico nome. In ogni caso, leggendone la storia e osservandone le fotografie, non si può fare a meno di rimpiangere una realtà che, se difesa e mantenuta, avrebbe potuto apportare un valore aggiunto all’economia e alle potenzialità turistiche di questo nostro territorio. La storia, purtroppo, non si fa con i se e con i ma; oggi possiamo affermare, senza dubbio, che la soppressione del trenino Voghera-Varzi e della linea ferroviaria fu un errore. Lungo il percorso dei binari sta sorgendo una greenway, destinata a ciclisti e pedoni: pochi chilometri, per ora, e un progetto in itinere per farla arrivare, prima o poi, fino a Varzi. Possiamo solo, con un salto a ritroso nel tempo, sognare ancora una volta di salire sul magico trenino Voghera-Varzi…”
Scrivere di personaggi famosi si rischia sempre di dire cose inesatte ma soprattutto, cosa gravissima, di dimenticarsi di qualcuno. In effetti mi sono dimenticato di qualcuno, fatto voluto, perchè avrei dovuto costruire un sito web intero. Sono tanti i personaggi che sono nati nelle Quattro Province. Molti poi hanno dovuto emigrare per trovare fortuna, altri invece, pur avendo fortuna in Italia e all’estero, hanno mantenuto qui le loro radici, altri hanno avuto solo gli avi, ma è rimasto indelebile il loro ricordo. Ottimo lavoro sui personaggi delle Quattro Province è stato svolto dagli autori del sito Appennino 4P del quale vi consiglio la visita.
L’Oltrepò Pavese poi è terra di storia che ha origine molto antiche. Le tracce e i reperti archeologici ci portano ai liguri, poi passiamo al dominio romano con l’intermezzo del cartaginese Annibale, si passa poi al fantastico medio evo, periodo che ha visto grande sviluppo portato dalle famiglie nobili dai nomi altisonanti, ma anche per mezzo di famiglie nobili meno importanti. Passiamo poi all’età più moderna e l’Oltrepò ha comunque ha portato nomi molto famosi e celebrità. Le famiglie nobili hanno lasciato ai nostri giorni una quantità incredibile di reperti storici come quadri, affreschi, castelli e palazzi, un immenso patrimonio di cultura. Molti dei nomi si sono persi negli anni ma alcune esistono ancora con il loro discendenti e, con i preziosi restauri dei castelli o palazzi, ci stanno regalando immagini e sogni che ci portano indietro nel tempo. Il medio evo poi è stato anche ricco di storia religiosa e qui sostarono, portarono la loro parola di fede. Abbiamo qui indicato alcuni dei nomi più famosi anche se si potrebbe parlare e scrivere anche all’infinito, vista la mole incredibile di dati e libri antichi che sono arrivati ai nostri giorni.
Alessandro BOLCHI (regista)
Nato a Voghera nel 1924, si laureò in lettere ed esordì come attore di teatro. Trasferitosi a Bologna iniziò l’attività di giornalista prima di approdare alla professione di regista teatrale e in seguito regista televisivo. Dal 1956 diresse per la TV numerosi sceneggiati quali “Il Mulino del Po”, “I Promessi Sposi”, “Le mie Prigioni”, “I fratelli Karamazov”, “Anna Karenina”, “Bel Amì” e “La coscienza di Zeno”. Per alcuni anni è stato premiato quale miglior regista televisivo italiano. E’ morto a Roma il 2 agosto 2005.
Giannina CENSI (danzatrice e insegnante)
Nata a Milano nel 1913, dopo una rigorosa formazione scaligera con il maestro Cecchetti, a soli 17 anni approda a Parigi per studiare con la ballerina russa Lubov Egorova. L’incontro con il Marinetti nel 1930 la porterà divenire la principale interprete della danza futurista. Dopo la guerra si dedicò all’insegnamento e a Voghera aprì una scuola di ballo. Morì nella primavera del 1995.
Valentino GARAVANI
(stilista)
Valentino Clemente Ludovico Garavani, poi conosciuto internazionalmente solo come Valentino, nasce l’11 maggio del 1932 a Voghera. Dopo la licenza media si sente attratto dal mondo delle stoffe e della moda. Decide quindi di iscriversi ad una scuola professionale di Figurino a Milano, ma la sua curiosità naturale lo porta anche a viaggiare spesso all’estero. Si trasferisce per un lungo periodo a Parigi. Studia anche a l’Ecole de La Chambre Syndacale. Nel corso di una vacanza a Barcellona, invece, scopre il suo amore per il rosso. Da questa folgorazione nascerà il suo famoso “rosso Valentino”, peculiare per il suo essere cangiante fra le tonalità dell’arancio e del rosso vero e proprio. Negli anni ’50 partecipa al concorso IWS ed entra nella casa di moda di Jean Desses. Durante quel decennio si impegna con grande umiltà e spirito di sacrificio nell’atelier di Guy Laroche, lavorando nella sartoria e impegnandosi sia a livello creativo che organizzativo. All’inizi degli anni ’60 apre a Roma il suo primo atelier: sarà un crescendo di successi che lo porteranno a diventare uno dei più grandi sarti del mondo. Un’altra tappa importante da segnalare nella straordinaria carriera di questo stilista è che Valentino è il primo couturier italiano a stipulare contratti di licenza con aziende manifatturiere per la produzione e la commercializzazione sui mercati internazionali di prodotti con la sua griffe. Il resto è storia recente: creatività straordinaria, eccezionale gusto per il bello, sapiente equilibrio tra nuovo e tradizione, ricerca continua di perfezione di forme e colori hanno fatto di Valentino uno dei maestri riconosciuti della moda del Novecento.
Alessandro MARAGLIANO (poeta)
Figura di primissimo piano nella cultura vogherese di fine Ottocento, nacque nella città il 6 novembre del 1850. Pittore, poeta, giornalista, storico, dialettologo, studioso infaticabile di tradizioni locali, si dedicò con passione a tutto ciò che fosse “cultura” in un’ottica di incredibile apertura intellettuale e vivacità. Ovunque si fece conoscere come organizzatore originale di eventi culturali e promotore di iniziative che potessero coinvolgere soprattutto i giovani e gli intellettuali più anticonformisti. In tutto il suo lavoro, sia come poeta che come giornalista o storico fu sempre animato da un alto senso di impegno civico e dal desiderio di avvicinare tutti alla cultura. Morirà nel febbraio del 1943 a Napoli. La sua fama è affidata oltre che ai numerosissimi scritti di carattere giornalistico, ai suoi quadri e disegni, alla sua originale ed ampia produzione poetica dialettale nonché all’attento lavoro di raccolta e sistemazione dell’ immenso materiale che aveva raccolto su dialetto e folclore locale.
Annibale Barca
Annibale è considerato uno dei più grandi generali della storia. Marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la Provenza e le Alpi, scese in Italia. Le nostre zone sono state al centro di epiche ed fondamentali battaglie dove sconfisse le legioni romane, battaglia del Ticino (218 a.C.) e la battaglia della Trebbia (218 a.C.). Lo possiamo immaginare con il suo imponente esercito di uomini ed elefanti percorrere ed attraversare le montagne e le valli dal Trebbia fino a Casteggio dove restò per un periodo di tempo dove, ancora oggi possiamo vedere la famosa fontana.
Virdumaro e Claudio Marcello
Epica la battaglia tra i due condottieri, che si sfidarono in una famosa battaglia a Casteggio nel 222 a. C. Comunque i Galli Insubri, lasciata Clastidium, avanzarono contro il nemico, ma furono attaccati dalla cavalleria romana con grande impeto. Dopo una certa resistenza, e furono spinti verso un fiume dove in gran numero trovarono la morte. Lo stesso console Marcello, riconosciuto il re nemico Virdumaro dalle ricche vesti, lo attaccò uccidendolo di persona. La distruzione dell’esercito degli Insubri spianò ai Romani la strada di Milano, capitale nemica, che fu conquistata dopo breve assedio. La battaglia di Clastidium, può considerarsi come preludio della prima unificazione italiana e divenne tra le più celebri della storia romana.
Federico I di Hohenstaufen, detto il Barbarossa
Per spiegare la vita di questo condottiero di assoluto valore mondiale, e parliamo di quello conosciuto nel periodo medievale, ci vorrebbe un libro intero, ci limitiamo a dire che per le nostre zone è stato l’uomo che ha strutturato la realtà nobiliare non solo d’Oltrepò Pavese. Legati al condottiero sono gli Obizzo Malaspina ed il Castello di Oramala.
Adriano CALLEGARI (Cantastorie)
Nato a Voghera nel 1921 e figlio d’arte, Adriano Callegari è considerato uno dei più grandi cantastorie italiani. Con gli altri cantastorie “pavesi”: i coniugi Cavallini e Antonio Ferrari, Callegari è stato dal 1940 al 1982 uno dei più conosciuti ed apprezzati artisti popolari di tutti i tempi. Il suo sassofono e le sue canzoni sono stati per più di quarant’anni la colonna sonora delle piazze di tutta Italia. Nella prima metà degli anni Settanta è una presenza costante anche sul piccolo schermo, dove collabora con Mario Soldati e Cesare Zavattini. Nel 1975 viene eletto “Trovatore d’Italia”. Grande affabulatore, Callegari è riuscito a trasformare l’arte dell’imbonimento in vero e proprio teatro popolare. Il suo nome appare in numerosi testi universitari accanto a grandi nomi della musica italiana del secolo scorso. Nel 2002 gli viene assegnato l'”Ambrogino d’oro” per il prezioso contributo dato alla cultura popolare e nel 2007 riceve un solenne encomio dal Presidente della Repubblica.
Giuseppe Franco CALVI detto Pino (musicista)
Nato a Voghera nel 1938, Giuseppe Franco Calvi detto Pino iniziò gli studi di pianoforte a cinque anni con il maestro Giuseppe Accorsi. Nel 1947 iniziò la frequentazione dell’ambiente musicale milanese ed ebbe modo di conoscere e suonare con i migliori jazzisti italiani. Dopo numerosi concerti in tutta Europa, nel 1955 approda negli Stati Uniti e nel 1956 in Canada. Al rientro in Italia prosegue la professione di pianista, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra per la RAI. Diresse per tre edizioni l’orchestra al Festival di Sanremo. Fu musicista e compositore a tutto campo, che si accostò a diverse esperienze musicali, mantenendo nel tempo le sue caratteristiche melodie romantiche. Il suo maggior successo discografico fu “Accarezzame”, di cui furono venduti oltre venti milioni di dischi in tutto il mondo in 250 versioni. Ricevette numerosi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali per arrangiamenti di brani musicali di successo (Exodus, Il nostro concerto, Don’t cry for me Argentina).
Pierino CODEVILLA (musicista e compositore)
Nasce a Voghera nel 1897. Si diploma in violino al Conservatorio di Milano ed entra nell’orchestra del Teatro Sociale della città. Versatile interprete e perfetto esecutore svolge ruoli sia di violino di spalla che di primo violino. Gli Anni Trenta sigillano l’inizio della sua passione per il tango argentino e comincia a comporre musica per tango che lo fa conoscere al grande pubblico come “re del tango”.
I tragici fatti della Seconda Guerra Mondiale non rallentano la sua produzione e il suo successo. Gli anni Cinquanta, anche se non particolarmente favorevoli alla musica del tango per la grande diffusione delle nuove mode musicali, vedono Pierino Codevilla ancora attivo nel suo lavoro di composizione e di esecuzione: l’ultimo decennio della sua vita lo vedono al centro di un nuovo grande successo di pubblico. Il ritorno dell’interesse per il “liscio” indirettamente riportano all’ascolto le sue musiche per tango facendole riscoprire a chi già lo conosceva e suscitando nei più giovani, avvicinatisi al tango, un grandissimo interesse. Muore nella sua città natale nel 1979. Pierino Codevilla è l’unico musicista vogherese il cui nome è inserito nell’Enciclopedia Musicale Italiana: la “summa” della storia della musica del nostro Paese.
Arturo Toscanini (Direttore d’orchestra)
Considerato uno dei più grandi direttori di ogni epoca, viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner. E’ nato a Parma ma le sue origini sono qui nelle Quattro Province, è infatti nella piccola frazione di Bogli di Ottone, incastonata nell’alta val Boreca e cullata fra le vette montane del Lesima, Cavalmurone ed Alfeo, che vide la luce Pietro Toscanini, il bisnonno del Maestro nel lontano 19 maggio 1769. Nei registri parrocchiali di Bogli infatti, accanto al nome di Pietro Toscanini, il bisnonno, sono indicate anche le generalità dei genitori Simone e Maria Toscanini ( i trisavoli, sempre di Bogli) senza alcuna precisazione però sulla data di nascita. È Bogli, dunque, il paese di origine degli avi dell’illustre Direttore (il paese “dei” Toscanini), dove oggi esiste ancora la casa del bisnonno Pietro Toscanini, una caratteristica costruzione di montagna rivolta verso la vetta dell’Alfeo. Nell’accogliente cimitero di Bogli riposa in pace fra queste incontaminate montagne, Antonio Toscanini (cugino e quasi coetaneo del Maestro) morto ad 88 anni il 2 agosto del 1954 ed i cui lineamenti non riescono a celare la forte somiglianza con l’illustre Arturo.
I Malaspina e il Castello di Oramala
La famiglia Malaspina deriva da quella degli Obertenghi che, insieme agli Aleramici del Carretto e ad altre famiglie, domina la zona dell’Appennino Ligure.
Cosa significa Malaspina? Alcuni studiosi, tra cui il Muratori, riprendono la leggenda secondo cui Accino, un antenato del capostipite dei Malspina vissuto nel 549, uccide per errore con una spina Teodoberto I re dei Franchi mentre preparavano insieme un attacco ad un nemico comune.
La famiglia degli Obertenghi è una delle quattro importanti famiglie che hanno dominato la Liguria. Il castello di Oaramala rappresenta la culla degli Obertenghi e poi dei Malaspina. Quella degli Obertenghi è considerata una famiglia di origine probabilmente franca, forse longobarda. L’antenato dei Malaspina è Bonifacio I detto il Bavaro, vissuto all’inizio del IX secolo d.C., riconosciuto da Carlo Magno come duca.
Oberto, il capostipite dei Malaspina, ottiene da Ottone di Sassonia, re del Sacro Romano Impero, la carica di conte del Sacro Palazzo ossia rappresentante del re e il feudo della Liguria Orientale; così i suoi possedimenti si estendono così su Toscana, Liguria e Piemonte arrivando quasi a Tortona.
Attivo protagonista delle vicende politiche del tempo, Oberto riesce ad occupare anche alcuni possedimenti fondiari di importanti monasteri come San Colombano a Bobbio ed è coinvolto in numerosi contrasti con l’abate di Bobbio Gerberto d’Aurillac che diventerà papa con il nome di Silvestro II.
I discendenti di Oberto si suddividono in vari rami che danno origine ad alcune importanti famiglie del territorio italiano, oltre al ramo principale dei Malaspina, la linea degli estensi da cui discendono anche gli Hannover che occupano Ferrara, Modena e Reggio Emilia, il ramo dei Pelavicino (dal cognome molto significativo di uno dei discendenti) che occupano Parma, Piacenza e Fidenza e altri rami con feudi sparsi nell’Appennino tosco-ligure-piemontese.
Nel X secolo gli Obertenghi si insediano nella fortificazione di Oramala.
Secondo lo storico Guido Guagnini esisteva una torre a base quadrata di epoca romana alta 15/20 m che faceva parte della linea retta che collega Oramala con le torri di Pozzolgroppo e Sant’Alberto di Butrio.
Il primo documento che nomina Oramala risale al 1029: il diacono Gerardo dona al marchese Ugo degli Obertenghi, insieme ad altri beni, la rocca di Oramala. Questa passa ad Alberto Azzo I e a Oberto Obizzo che vi risiede e nel documento del 1056 viene nominato il suo vassallo Rustico da Oramala. Con il termine rocca, Oramala è individuata come fortificazione sulla sommità del monte.
Il castello per brevi periodi è in possesso dei marchesi d’Este (1157) e del Vescovo di Tortona, anche se è poco chiaro quando avvenga questo passaggio e cosa precisamente rappresenti Oramala (solo il castello o anche la zona intorno al castello?), ma nel 1164 Federico Barbarossa riconsegna il possedimento a Obizzo Malaspina.
Nel 1167 il Barbarossa viene aiutato da Obizzo a raggiungere Pavia attraverso i sentieri tracciati dai mulattieri nell’Appennino e passa una notte ad Oramala.
Nel 1184 nei documenti viene indicato il “dongione” ossia un ridotto difensivo interno al castello circondato da un recinto murato, quindi non una torre nel castello, ma un “castello nel castello”. Situazioni simili si trovano nell’area geografica dell’Oltrepò. In quel periodo, quindi, Oramala è individuata dal dongione a dalla torre.
Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo la corte di Oramala vive il periodo di maggior splendore anche culturale: viene celebrato il joi, la gioia della giovinezza, dell’amor cortese.
Importanti trovatori originari della Provenza vengono accolti dai nobili delle corti del Nord, tra cui i marchesi di Monferrato e dai Malaspina. Il castello di Oramala, posto sull’antichissima strada che dalla Val Bisagno risaliva attraverso il passo della Scoffera in Val Trebbia e poi attraverso il passo del Brallo in Val Staffora, tra Tortona e Pavia, è l’unico castello malaspiniano nominato nei testi trobadorici, a testimonianza dell’importanza strategica rivestita da questa corte nell’ambito del sistema di comunicazione e delle relazioni di potere del tempo.
Il primo trovatore ad entrare in contatto con i Malaspina è Raimbaut de Vaqueiras, originario della Valchiusa, resa famosa dai versi di Petrarca. Raimbaut sosta alla corte di Obizzo il Grande ed oltre ad essere un eccezionale testimone delle vicende politiche e militari che coinvolgono i Malaspina è famoso per essere il primo poeta a comporre delle strofe in un volgare italiano, il genovese (nel celebre contrasto con la donna genovese: Donna, vi ho tanto pregata).
Negli anni seguenti, durante il periodo della condivisione del potere tra Guglielmo e Corrado (ricordato da Dante come “l’Antico”), altri importanti trovatori vengono accolti a Oramala e celebrano la fama dei Marchesi, che sul modello della corte del Monferrato trovano nella poesia dei compositori itineranti un significativo elemento di prestigio: Aimeric de Peguilhan canterà il suo signore Guglielmo in uno splendido compianto funebre; Peire Raimon crea un componimento basato sul gioco allegorico intorno al nome Malaspina, ripreso poi da Dante e Cino da Pistoia; Albertet de Sisteron, Aimeric de Belenoi e Guihem de la Tor si cimentano nel genere del cortège de dames (corteo di dame), chiamando a raccolta attorno a Selvaggia e Beatrice Malaspina le più importanti nobildonne dell’epoca.
Nel 1221, dopo la morte di Guglielmo, avviene la storica divisione dei beni e la distinzione araldica tra i cugini Corrado e Obizzino, con il fiume Magra come termine divisorio: a Corrado, capostipite del ramo dello Spino Secco, toccano le terre poste sulla riva destra del fiume, con capoluogo Mulazzo; a Obizzino quelle poste sulla riva sinistra, con capoluogo Filattiera.
In base alla spartizione le valli della Staffora e del Curone vengono assegnate, unitamente a una porzione dei feudi lunigianesi, ad Obizzino. Nel 1275 un’ulteriore spartizione assegna ad Alberto, figlio di Obizzino, i castelli di Oramala, Monfalcone e Valverde; al nipote Francesco Pozzolgroppo, Bagnaria e Pietragavina; agli altri nipoti Varzi, Santa Margherita e Casanova.
Nel XIII secolo inizia il declino, anche a causa del continuo frazionamento del patrimonio tra gli eredi dei Malaspina.
Oramala rimane in possesso dei Malaspina fino al XVIII secolo.
Dal Verme
E’ una antica e storica famiglia che compare e si afferma a partire dal XIII secolo come schiatta di capaci e valorosi uomini d’arme, al servizio degli Sforza. Fu un Dal Verme, Luchino, che nel 1356 conquistò Pavia che passò pertanto a far parte dei domini viscontei. Egli fu uno dei migliori condottieri del suo tempo per abilità, senno e coraggio. Fu del pari uomo d’armi il di lui figlio, Jacopo, e fra i più celebri del suo tempo.
La vittoria riportata da Jacopo Dal Verme su Giovanni d’Armagnac il 25 luglio 1391 presso Alessandria, fu cantata dall’Ariosto nell’Orlando Furioso. Il figlio di Jacopo, Luigi, fu anch’egli uomo di guerra sempre al servizio dei duchi di Milano dai quali ebbe in feudo varia località ora comprese nell’Oltrepò pavese, come Voghera, Zavattarello, Ruino, Fortunago, Corte Brugnatella, Pietragavina e Bobbio. Con quest’ultima città, il rapporto dei Dal Verme fu particolarmente lungo, solido ed importante. Infatti, Bobbio con un vasto territorio comprendente non poche ed anche importanti località, più che un feudo costituiva quasi uno Stato. Un organismo politico che, con vicende alterne, scomparve soltanto con la fine del feudalesimo.
La famiglia ebbe nei secoli altri personaggi di rilievo; speciale menzione merita, fra i molti, Francesco Vitaliano per i viaggi compiuti negli Stati Uniti d’America, dove conobbe Giorgio Washington. I fasti militari della famiglia furono rinnovati nell’800 dal generale Luchino Dal Verme (1838-1911). Sottotenente dei Granatieri nel 1859, partecipò alla campagna di quell’anno ed a quella dell’anno dopo nell’Italia centro-meridionale, meritando una medaglia d’argento al valor militare. Nel 1861 passò nello Stato Maggiore e fu docente presso la Scuola Militare di Modena; prese parte anche alla guerra del 1866 guadagnando una seconda medaglia d’argento. Colonnello nel 1882, ebbe il comando del 600 Reggimento Fanteria; maggior generale nel 1890, comandò successivamente le brigate di Fanteria Pinerolo e Umbria. Tenente generale nel 1896, fu nominato giudice presso il Tribunale Supremo di Guerra e Marina; nello stesso anno fu nominato Sottosegretario al Ministero della Guerra, di cui era titolare il gen. Ettore Ricotti Magnani, nel Governo presieduto da Antonio Starabba do Rudinì, dal 10 marzo all’il luglio 1896. Comandò quindi la Divisione militare di Napoli e poi quella di Novara.
Fu eletto deputato per un collegio di Pavia per la XVII legislatura (10 dicembre 1890 – 27 novembre 1892) e nel collegio di Bobbio per le legislature dalla XVIII (23 novembre 1892 – 23 luglio 1894) alla XXII (30 novembre 1904- 8febbraio 1909).
Fra i molti problemi militari di cui il gen. Dal Verme si occupò vi fu anche un progetto di difesa della zona montana fra Genova e la pianura padana che riguardava anche il nostre Oltrepò.
Beccaria
Un altro nome molto ricorrente in queste zone e del pavese. Questo almeno farebbe pensare il loro stemma, che contiene tredici monti (interpretati come tredici signorie poste in collina), e altresì il fatto che proprio nell’Oltrepò ebbero la zona di maggiore influenza. La famiglia ebbe una notevole importanza nella vita politica pavese e si arricchì tanto che riuscì ad acquistare vasti territori. Molti dei castelli furono dei Belcredi e furono protagonisti di battaglie con i vari casati di queste zone.
Rovereto
Antica famiglia genovese che annovera personaggi di rilievo nella storia della repubblica di Genova. Bernardo fu capitano di galea nella battaglia di Rapallo Contro i francesi nel 1495; Antonio fu Governatore in Corsica nel 1520, Nicolò fu capitano in Pieve di Teco nel 1581-82, Tommaso fu governatore della Spezia nel 734-37 e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Molti componenti furono senatori della Repubblica.
In secoli più vicini, ricordiamo Luigi, barone dell’impero francese (nel 1805 la Liguria era entrata a far parte ell’impero francese di Napoleone) tenente dei corazzieri francesi, decorato della Legion d’Onore, poi lnente di Cavalleria nell’esercito Sabaudo e decorato dell’Ordine Militare di Savoia, in sostituzione della legion d’onore. In seguito fece parte del Consiglio di Stato; Francesco fu ufficiale dei Carabinieri, entrando si nell’ordine dei Gesuiti.
re figlio del soprannominato Luigi, Carlo sottotenente nei Granatieri Guardie, Caduto alla battaglia di Goito 30 maggio 1848. Altri Componenti della storica famiglia si distinsero nelle armi, nella pubblica mministrazione e nelle scienze. Ad altro ramo della famiglia appartenne Antonio, che fu patriota dapprima Irbonaro, poi mazziniano. Condannato a morte nel 1833 per la partecipazione a congiure mazziniane di uell’anno, riuscì a fuggire in Francia. Successivamente graziato rientrò nel regno sabaudo e fu anche eletto eputato nella seconda legislatura del Parlamento subalpino (1 febbraio – 30 marzo 1849). Un altro mponente di questo ramo della famiglia fu Pietro, ufficiale di cavalleria nell’esercito napoleonico e fece la campagna di Russia. Alla restaurazione passò nelle Guardie del Corpo del re di Sardegna, reparto da non :infondersi con i Granatieri Guardie di cui già si è fatto cenno, a proposito di Carlo Rovereto. Le Guardie del corpo appartenevano alle ‘Truppe della Casa Reale’. Antonio Rovereto occupò anche cariche militari in Genova e molto si distinse durante l’epidemia colerica del 1834.
Oggi i Rovereto marchesi di Rivanazzano sono presenti nel nostro Oltrepò con molteplici, prestigiose ed utili iniziative.
Cavagna di Gualdana
E’ una famiglia molto antica, già nota nel ‘XI secolo, decorata del titolo comitale, con il predicato di Gualdana, terra presso Voghera. La famiglia appartiene al patriziato dl Voghera, città nella quale i Cavagna ebbero cariche e cospicui onori pubblici. Diede infatti magistrati al Comune, prelati, uomini d’arme, letterati, professori allo studio pavese. In tempi più recenti si distinse nelle armi Giacinto Cavagna. Sottotenente di fanteria, nel 1840 passò nel Corpo dei Carabinieri Reali, partecipando alla campagna del 1848-49. Durante queste operazioni di guerra, Giacinto Cavagna prese parte alla carica degli squadroni dei Carabinieri alla battaglia di Fastrengo del 30 aprile 1848. Ebbe poi il comando di vane Legioni dei Carabinieri: maggior generale nel 1860, comandò la 11 e poi la 141 Brigata di Fanteria. Raggiunse in seguito il grado di tenente generale. Insigne negli studi storici fu Antonio Cavagna – Sangiuliani, dal quale il Secondo cognome fu acquisito per adozione da un cugino. Volontario nel Reggimento Lanceri di Aosta per la guerra del 1866, dopo la conclusione del conflitto si dedicò interamente alle ricerche storiche. Scrisse moltissimo, lasciando contributi rilevanti. Non è ovviamente possibile fare una, anche succinta, elencazione delle opere del Cavagna. Ricordiamo soltanto, fra le più importanti: L’Agro vogherese. Memorie sparse di storia patria, Il castello di Stefanago con notizie sulla Famiglia Corti, La basilica di San Marcello in Montalino, San Zaccaria nella valle dell’Ardivesta e la sua Pieve, Fra colli e valli del vogherese, L’abbazia di Morimondo sulla costiera del Ticino, Documenti vogheresi nell’Archivio di Stato dl Milano e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Antonio Cavagna fu un signore di buona, solida e vasta cultura, figura molto rappresentativa della intellettualità lombarda e piemontese dell’800. Ricoprì anche prestigiose cariche pubbliche e fu decorato di molti ed insigni ordini cavallereschi italiani e stranieri.
De Ghislanzoni
E’ opinione che questa famiglia, tra le più eminenti dell’Oltrepò, abbia comune originale con i Ghislanzoni di Venezia, già ascritti alla nobiltà di Crema, città dalla quale si trasferirono a Venezia. I De Ghislanzoni si riconoscevano originari di una omonima famiglia milanese insignita del titolo di conti di Barco. Nella chiesa di S. Salvatore o dei SS. Apostoli di Venezia si trova un sepolcreto che ricorda appunto tal famiglia. Trasferitosi un ramo della famiglia nell’attuale Oltrepò Pavese, questo ha conservato la tradizione della originale veneziana. I Ghislanzoni oltrepadani sono insigniti del titolo baronale. Legati per molteplici vincoli allo storico borgo di Montebello della Battaglia, i De Ghislanzoni non mancano mai alle celebrazioni della battaglia del 20 maggio 1859 e ad altre manifestazioni culturali che si tengono a Montebello e nell’Oltrepò in genere.
Giorgi di Vistarino
Famiglia di origini molto antiche e molto radicate nel pavese. Dalla famiglia ne uscirono uomini di governo, condottieri e di chiesa. Parlando di Oltrepò bisogna ricordare che due comuni presero il nome dalla famiglia, quello di Pietra de Giorgi e di Rocca de Giorgi del quale gli eredi sono ancora proprietari della maggior parte del comune e di quella rocca, ormai un rudere, detta di Messer Fiorello. In località Fornace, sede municipale di Rocca de Giorgi, si trova la meravigliosa villa dei Conti ultimi eredi della famiglia, proprietari anche di una azienda vinicola che produce dell’otimo vino.
Visconti
Signori di Milano sono legati a Voghera ed il castello Visconteo è la nostra più visibile ed importante eredità, anche se altre famiglie nobili ne hanno avuto il possesso durante il lungo periodo medievale. Il nobile che si lega al castello è quello di Gian Galeazzo che da una roccaforte dedita esclusivamente alla difesa lo ha trasformato in una residenza anche se comunque aveva funzione primaria di difesa.
San Rocco
Della vita di San Rocco non si consoce molto. Comunque sia tutte le fonti confermano che il santo proveniva da famiglia nobile e proveniente dalla Francia. La date tradizionali che ne delineano la sua vita confermano nel 1295 la data di nascita e nel 1327 all’età di 32 anni la sua morte. Sicuramente è stato il più noto ed efficace guaritore di peste. Altro dato certo è da ricercare nel periodo vissuto dal Santo infestato da questa terribile epidemia, tanto che è invocato come protettore contro la peste ed è uno dei Santi più presenti nella cultura popolare, non a caso in Valle Staffora sono state costruite molte chiese dedicate al Santo e tutte ad invocare protezione. La Chiesa più importante in Oltrepò dedicata al Santo è quella di Voghera. Come dicevamo San Rocco era ricco ma, con la morte dei genitori, con l’eredità ricevuta diede sostegno ai poveri, ad ospedali e rinunciando a tutto vestendosi del solo saio.
San Bovo
La prima parte della sua vita è nel castello di Noyers nell’alta Provenza, tra giochi di scherma, caccia, tutto faceva sperare in un futuro da cavaliere provenzale, ma un particolare ha colpito il Santo, la profonda devozione alla preghiera che riuniva tutta la nobile famiglia nobile. Così giunta la sua maturazione partì dalla Provenza per diffondere la religione cristiana e combattere gli infedeli. Morì il 22 maggio 986 durante il ritorno da un pellegrinaggio da Roma di malaria. Si racconta che la sua tomba, sia stata dimenticata ma nei suoi pressi accadevano fatti strani come quelli di animali al pascolo che venivano presi da tremore e cadevano in terra morti e, dopo riesumazione, le ossa mandavano un soave profumo. Così gli venne data degna sepoltura dentro la chiesa che venne eretta nel secolo XII ed anche qui i miracoli continuavano e i ciechi riebbero la vista. Purtroppo le reliquie dovettero peregrinare per molto tempo prima di ritornare definitivamente a Voghera e riposare nel Duomo. Considerato il patrono di Voghera viene festeggiato il 22 maggio. E’ considerato patrono degli animali domestici ed in particolare dei bovini.
San Colombano
Se dobbiamo dare una classifica di importanza il Santo irlandese è stato il personaggio che ha dato una svolta importante per l’Oltrepò Pavese e per le zone limitrofe. Oltre ad aver fondato, in giro per l’Europa, altri quattro monasteri di notevole importanza, ricevette nel 614, dal re longobardo Agilulfo e dalla regina Teodolinda, il permesso di costruirne il quinto a Bobbio. Non ebbe tanto tempo per vedere questo monastero crescere perchè un anno dopo morì e, nella cripta dell’Abbazia, riposano le sue spoglie. Il Santo fondò l’Ordine di San Colombano, denominato anche come Ordine Colombaniano. Caratteristica dei monaci era l’abito talare di lana bianca con il sole giallo sul petto.
Sant’Alberto e Frate Ave Maria
L’Eremo di Sant’Alberto di Butrio è legato al Santo dal quale ha preso il nome, uno dei luoghi di culto più importanti d’Oltrepò Pavese ma importante per il turismo religioso che porta molti visitatori tutti gli anni. Della vita del Santo si conosce molto poco ma, secondo la tradizione, visse in una grotta nella valletta del Rio Begna che dall’Eremo volge verso il paese di Moglie, luogo dove ora si trova una cappelletta. La tradizione continua con la donazione di una cappella, nel luogo dove oggi esiste l’Eremo e più esattamente la cappella al quale hanno dato il nome di Santa Maria, da parte del marchese Malaspina per aver fatto il miracolo sul figlio sordomuto. Altro episodio legato al Santo vuole che, dopo aver celebrato messa senza aver osservato il digiuno, dovette andare dal Papa perchè si giustificasse, così per provare la sua innocenza trasformò l’acqua in vino. Il Santo tornò all’Eremo per poter continuare a pregare e professare la religione cristiana, fino alla sua morte nel 1703. Le sue spoglie sono conservate ancora oggi all’interno dell’Eremo. Legato in qualche modo al Santo e all’Eremo è la storia di Frate Ave Maria, diventato cieco a dodici anni a causa di colpo di fucile sparato accidentalmente da un suo compagno di giochi. Ospitato nell’istituto Don Orione e, a seguito diun periodo molto triste per la sua esistenza, divenne frate e la sua vita proseguì nell’Eremo di Sant’Alberto. Ancora oggi viene conservata la sua stanza così come era al momento della sua morte, con i vestiti di allora e i tanti libri scritti i Braille.
San Ponzo
San Ponzo nasce a Roma all’inizio del terzo secolo da nobile famiglia pagana nel periodo quando ormai i cristiani si stavano diventando numerosi influenzando le genti nella pratica religiosa. Il Papa Ponziano gli amministra il Battesimo dandogli il nome di Ponzo. Il suo peregrinare per diffondere la fede cristiana, lo portò anche in Valle Staffora, anche per sfuggire alla persecuzione romana. Dapprima passò a Fortunago, poi in seguito in una località che oggi la individuiamo a San Ponzo, nel comune di Ponte Nizza lungo la Valle Staffora, nome a cui viene aggiunto il nome “Semola” dal torrentello che costeggia il borgo e si getta nel torrente Staffora. Per raggiungere il luogo dove esattamente visse Ponzo, bisogna percorrere una strada sterrata che parte appena fuori dell’abitato, luogo solitario dove vi erano alcune grotte scavate nella montagna. Le grotte sono state la sua diventando ora la “Grotta di San Ponzo”, venerata dalla popolazione del luogo, ma anche meta di tanti fedeli provenienti dalle zone circostanti dell’Oltrepò. La sua storia terminò il 14 maggio, giorno che ancora oggi lo celebra, anno in cui avvenne il martirio tramite decapitazione. Il teschio del Santo è conservato nella parrocchiale di Fortunago, dove San Ponzo è patrono, mentre il resto del corpo è nella pieve di San Ponzo Semola. A questa strana situazione è legata una storia o leggenda, ma è comunque voce che si tramanda, che vuole il parroco di Montato Pavese, avuta la testa del santo, volesse portarla nella sua parrocchia; ma, giunto a Fortunago, essa diventò così pesante che non fu possibile proseguire, e il parroco dovette lasciarla lì.
San Contardo
San Contardo d’Este, giovane nobile della casata di Ferrara, diretto a Santiago di Compostela, moriva a Broni nel 1249 colpito da una grave malattia. Le sue spoglie vennero sepolte in un angolo della chiesa di S. Pietro, che si affaccia sulla piazza principale del paese, ma ben presto assunsero significato miracoloso e il nobile pellegrino venne beatificato, così per Broni si apre un capitolo nuovo della sua storia religiosa, il Santo lasciò la vita terrena ma rimase la sua testimonianza tanto da che la gente lo elesse patrono. Sono passati più di 700 anni ed oggi come allora il Santo viene ricordato ad agosto percorrendo la via Crucis che porta fino ad un piccola collinetta, in vista panoramica sulla città, dove risiede la Cappella di San Contardo, luogo dove si dice abbia vissuto i suoi ultimi momenti.
Carlo Bandirola (campione di motociclismo)
Classe 1915, nato a Voghera il 25 settembre, inizia nel 1934 con le gare di regolarità; la guerra lo porta in Albania e in Grecia meritando la “Croce di Guerra” come impavido portaordini motociclista. Ritorna alle gare nel 1946 con la Gilera 500 e nel 1951 approda alla MV – Agusta per sviluppare il nuovo motore 500, 4 cilindri. Il “Leone dell’Oltrepo” era un pilota generoso e spettacolare ma soprattutto uomo semplice, dotato di grande carica umana da diventare presto il beniamino delle folle. Vent’anni di carriera lo hanno portato ad iscrivere il suo nome nell’Albo d’Oro dei campioni. Morì a Voghera nel 1981.
Luigi Callegari (campione di ginnastica)
Nato nel 1892 è il primo olimpionico vogherese. Inizia a partecipare all’età di sedici anni a concorsi ginnici e atletici, vincendo svariate medaglie e diplomi tra cui, nel 1909 a Voghera, la medaglia d’argento grande al Concorso Ginnastico Interprovinciale. Nel 1912 fu selezionato per la Nazionale Italiana e, figurando ormai tra i migliori ginnasti italiani, partecipò ai Giochi della V Olimpiade di Stoccolma dello stesso anno: la formazione italiana conquistò la medaglia d’oro a squadre. Morì nel 1954.
Alfieri Maserati (pilota e costruttore d’auto)
Fondatore, insieme ai fratelli dell’omonima casa automobilistica, fratello maggiore del pittore Mario Maserati
Nato a Voghera nel 1887 si trasferisce a Bologna nel 1912 dove costruisce nel’ 1926 la prima “Maserati” la Tipo 26 col la quale vince nella propria classe (1500cc) la targa Florio (piazzandosi al 9° posto di classifica generale). Innumerevoli i titoli vinti dallo storico marchio che è conosciuto in tutto il mondo per la classe e l’eleganza delle sue vetture. Morì nel 1932.
Federico Momo (ciclista) 1878 – 1958
Nato nel 1878 all’età di 16 anni inizia la sua attività di ciclista su pista in Francia, patria riconosciuta del ciclismo, dove Momo si trasferisce per alcuni anni. Vincitore di importanti gare e premi in ogni parte del mondo, si ritirò dalle corse nel 1902.
Luigi Montagna (sportivo e attore)
1887 – 1953
Più conosciuto con il nome d’arte di Lewis “Bull” Montana, emigrato negli Stati Uniti nel 1906 dopo aver praticato a livello professionistico la lotta libera e la boxe si dedicò, con discreto successo in quel di Hollywood, alla carriera cinematografica.
Giovanni Parisi (pugile)
Di origini calabresi ma uno dei “vogheresi” contemporanei più noti ed amati.
Medaglia d’oro (pesi piuma) alle Olimpiadi di Seoul ( 1988 ), campione italiano (pesi leggeri) nel 1991. Campione del Mondo W.B.O. (pesi leggeri) nel 1992 e 1993 e campione del Mondo W.B.O. (pesi super leggeri) nel 1996 e 1997.
Carlo Pavesi (campione di scherma)
Nato a Voghera il 10.06.1923, più volte campione olimpico, giudicato dal 1955 al 1957 dal giornale “L’Equipe” come il miglior schermitore al mondo.
Giulio Pernigotti (pilota kart)
Nato a Voghera il 22.09.1938, vincitore di vari titoli italiani ed europei, vanta anche due Coppe Campioni e cinque record mondiali di velocità.
Fabio Fasola
Uno particolarità di questo campione vogherese è quella di avere iniziato a gareggiare sotto falso nome a causa della sua giovane età, infatti i “cadetti” hanno il limite dei 14 anni, e quindi Fabio Fasola corre col suo vero nome solo nel 1976. Da alloro in poi il più volte “azzurro” Fasola si conquista, malgrado anche una buona dose di sfortuna, fra Enduro e rally, tre Campionati Italiani, un mondiale a squadre, tre Campionati Regionali Junior, un secondo posto nel Campionato Italiano moto regolarità Cadetti e una lunga serie di vittorie nazionali ed internazionali. Una carriera entusiasmante costruita con uno “miscela” di vittorie esaltanti e sconfitte brucianti, di rabbiosi ritiri e rimonte impossibili; il tutto evidenzia il vincente di razza. Tra tutti questi personaggi che ci hanno lasciato, mio cugino Fabio, è ancora vivo e vegeto e si diletta ad insegnare come guidare una moto.
Gianni Brera (Giornalista sportivo)
Nato a San Zenone non esattamente nella zona chiamata Quattro Province, anche se comunque di origini pavesi. Famose sono le frasi del Gioânn, così veniva chiamato da amici e colleghi.
-Solo in provincia si coltivano le grandi malinconie, il silenzio e la solitudine indispensabili per riuscire in uno sport così faticoso come il ciclismo.
-La vecchiaia è bella. Peccato che duri poco.
Non farete fatica sul web a trovarne tantissime, una maestro della parola.
I Campionissimi
Stiamo parlando di Costante Girardengo, nato a Novi Ligure, e di Fausto e Serse Coppi, nati a Castellania. Così è chiamato il museo di Novi che raccoglie molte testimonianze dei tre “specialisti” della bicicletta. Mentre Castellania è un autentico museo a cielo aperto, tutto qui ci racconta di Fausto e di suo fratello Serse. Immagini alte come le mura della case che ci portano ai ricordi più simbolici della loro vita sportiva ma anche della loro vita diciamo “normale”. La immagine che più mi ha colpito rimane quando, attraversando il sentiero che passa sopra la Chiesa di San Biagio, i pensieri vanno a funerale di Fausto, sembra che quel prato sia sempre pieno di gente che da ogni luogo è venuta a dare l’ultimo saluto. In effetti la processione esiste anche adesso, ma di tanti ciclisti che si danno appuntamento qui a Castellania a visitare il luoghi dei due campioni.
Il 28 aprile 1945, con la fucilazione di Mussolini e dei gerarchi fascisti sulle rive del lago di Como, era toccato proprio ai partigiani dell’Oltrepò Pavese chiudere un conto che si era aperto 23 anni prima, allorquando, a Milano, le squadre lomelline di Cesare Forni avevano preso possesso con la forza di Palazzo Marino, spianando al fascismo la via della definitiva conquista del potere. Così come la Lomellina era, appunto, stata, anni addietro, una regione di punta nella geografia del fascismo lombardo e nazionale, era, ora, un altro territorio pavese a sancire, con un atto di intrinseca drammaticità, ma di alto valore simbolico, il proprio ruolo di protagonista nella storia d’Italia. Dalla localizzazione dei primi gruppi (almeno fino alla tarda primavera del’ 44) emerge prima di tutto un elemento di grande interesse. Nel quadro della primitiva organizzazione e delle prime azioni partigiane, è fuor di dubbio la priorità dei Piacentino e delle aree liguri e a1essandrine sull’ Oltrepò. Non solo i gruppi più numerosi e di maggior peso si van formando ai margini di quelli che sono i suoi confini amministrativi, ma sono proprio loro i protagonisti delle prime, più clamorose azioni e incursioni in territorio pavese. Ciò non esclude, ovviamente, la presenza di piccoli nuclei più direttamente legati al territorio (Primula Rossa, Tundra, Fusco) o costituiti intorno a sbandati o prigionieri di guerra di ogni nazionalità che avevan trovato rifugio in Oltrepò. Né si vuoi sottovalutare la presenza, subito dopo l’8 settembre’ di una rete clandestina di appoggio e di smistamento per i renitenti, sbandati e sfollati lungo i paesi di pianura e della prima fascia collinare. Quel che, però, è certo, è che tardano a farsi strada, nel territorio, i primi esempi di gruppi armati con alle spalle precisi referenti politici e/o organizzativi. Chi si rifugia in montagna ha un unico denominatore comune: il rifiuto della guerra e la volontà di sopravvivenza. Chi, invece, ha obbiettivi più ambiziosi in genere viene dal versante ligure e guarda, come riferimento, soprattutto a Genova né è sicuramente un caso, che, nel ’44, l’Oltrepò partigiano graviti in buona parte sulla VI zona ligure. La prima fase è, dunque, segnata da un ribellismo immediato e da una disobbedienza istintiva. Ta]volta questi atteggiamenti si esprimono con l’incontro tra i piccoli nuclei costituiti e i giovani sbandati e/o renitenti del luogo; talaltra, si verifica il caso dei capo, solo, che cerca una banda (l’incontro del “Greco”, ad esempio, con i giovani di Costalta e di Pecorara). In qualche caso neppure è possibile una distinzione netta tra le bande, tanto frequenti sono smembramenti, assorbimenti e fusioni. I caratteri tipici di questa fase sono una forte disorganizzazione, uno spiccato senso giovanile dell’avventura, il giudizio sommario e semplificato intorno a tutto ciò che, in qualche modo, poteva evocare il fascismo (e che legittimava anche pericolose scorciatoie). Non è senza significato che proprio intorno alla banda del “Greco” (con il suo disarmo, in luglio, e l’aggregazione dei suoi uomini in parte alla “Crespi”, in parte alle GL) si consumi un episodio decisivo ai fini dei passaggio dalla fase delle “bande” spontanee a quella delle formazioni organizzate. Dopo la liberazione di Roma, in giugno, è ormai diffusa ]a convinzione che si sia davvero alla resa dei conti. La situazione è in rapida evoluzione; la durezza dello scontro impone scelte di campo. La comparsa “ufficiale” dei partigiani nella montagna varzese, alla fine di maggio, la presenza crescente di gruppi, più o meno organizzati, e il rifiuto dei bandi di chiamata alle armi porta man mano al superamento dell’ atavica diffidenza contadina. Il processo di espansione partigiano va dal Brallo verso Nord, con il progressivo assorbimento dei vari gruppi locali. Si costituiscono la 51a Capettini e la 87a Crespi (garibaldine). Ancora più a nord, si colloca la Matteotti, che definisce il suo raggio d’azione tra la valle Scuropasso e l’alta Val Versa. A Est, in collegamento diretto con il Piacentino, le formazioni di Giustizia e Libertà. È, questa, una fase complessa e caratterizzata da forti tensioni, sospetti, azioni di disarmo e colpi di mano tra le formazioni che controllano i due versanti, pavese e piacentino. Finalmente, l’ 11 agosto, la conferenza di Romagnese delinea un assetto, lungo la linea spartiacque Penice-Romagnese, che non subirà modifiche sostanziali fino alla Liberazione. Il progressivo disarmo dei presidi fascisti e l’espansione verso la media collina allontanano la minaccia fascista diretta, limitandosi, la stessa, ad occasionali ma non per questo, meno pericolose – puntate brigatiste. Dopo la battaglia dell’ Aronchio, il 25 luglio – dove i contadini combattono a fianco dei partigiani con armi di fortuna – e la conquista del castello di Pietragavina, a metà agosto, tutta la montagna e l’alta collina sono sotto i] controllo partigiano. Ne resta esclusa, a fondovalle, solo Varzi, nei confronti della quale va maturando un sentimento di rivincita e di resa dei conti da parte dei paesi della montagna. Proprio da Varzi, il 26 agosto, oltre un migliaio tra tedeschi e fascisti attaccano le posizioni partigiane e puntano su Bobbio, lungo la direttrice Penice-Brallo, nel quadro di una vasta operazione di rastrellamento che, investendo anche l’Alessandrino e un’ampia porzione dell’ Appennino Iigure-emiliano, ha lo scopo di ristabilire le comunicazioni tra la Liguria e la valle del Po. Il rastrellamento investe la montagna. Allo scontro frontale non si regge e la difesa rigida delle posizioni si rivela perdente (più accorto si rivelerà l’atteggiamento dei garibaldini liguri). Le antiche polemiche tra le formazioni trovano nuovo alimento da] cedimento giellista sul Penice. Lo scoramento e il disorientamento durano, però, solo pochi giorni. Tra la fine di agosto e i primi di settembre la maggior parte dei reparti tedeschi e fascisti abbandonano il territorio conquistato. Il rastrellamento – il primo, in grande stile – ha fatto emergere molti problemi (fra tutti, la fragilità dell’organizzazione e l’azione frammentaria e isolata), ma ha suggerito anche preziosi insegnamenti. Il successo fascista si rivela più apparente che reale e non è in grado di impedire, di lì a poche settimane, la ripresa partigiana. Sul piano militare si assiste a una più vasta espansione e riorganizzazione delle formazioni. I contrasti e gli strascichi polemici paiono definitivamente superati. Il 2 settembre viene firmato un accordo di collaborazione militare tra GL e garibaldini. i problemi organizzativi e di inquadramento delle formazioni trovano nuova soluzione. Mentre le forze partigiane si riorganizzano ed accrescono la loro efficacia operativa, alla fine di ottobre un vasto territorio liberato e controllato dalle formazioni si spinge fino alle propaggini della bassa collina. Rispetto a luglio-agosto esso è accresciuto con la conquista di Varzi e di tutta la media/bassa Valle Staffora, fino a Godiasco. Con la presa di Varzi, l’Oltrepò Pavese acquista una dimensione e un respiro tali da affiancarsi alle altre tre zone libere (piacentina, ligure e alessandrina). Si viene così a creare una curiosa commistione tra la forma della zona libera e la repubblica partigiana vera e propria, laddove la situazione di stabilità raggiunta dava origine all’organizzazione di un autentico governo sul territorio. Su questa vastissima ‘zona libera’ si scatena, a fine novembre, la furia nazifascista. Il contesto generale, caratterizzato dal proclama Alexander e dall’arresto delle operazioni sulla linea gotica” , è fin troppo noto. Un “inverno di sangue” promettevano i volantini lanciati dalle ‘cicogne’ naziste sui territori partigiani. Questa volta lo scopo dei nazifascisti era quello di condurre un attacco definitivo, annientando le formazioni e impartendo una dura lezione alle popolazioni di quelle valli che collaboravano con i ‘ribelli’. Il rastrellamento, che parte proprio a nord-est dello schieramento partigiano (dal Pavese e dal Piacentino) è una vicenda militare assai complessa, un mosaico di fatti d’arme grandi e piccoli, una lunga serie di episodi, di violenze, di lutti. Il piano tedesco era quello di spingere sulle cime dei monti tutte le formazioni con una grande manovra di accerchiamento. Il 23 novembre i rastrellatori si muovono lungo le direttrici della Valle Scuropasso e della Ghiaia dei Risi verso lo spartiacque di Costa Cavalieri/Torre degli Alberi. Di qui al Carmine e a Ruino. Da Zavattarello si scende a Pietragavina, da una parte; a Romagnese e ai Penice, dall’ altra. La zona è sconvolta e messa a ferro e a fuoco. Per l’Oltrepò son giornate di vera tregenda: e tanto più feroce è il comportamento verso le popolazioni laddove i partigiani tentano di resistere. Con la riconquista di Varzi, abbandonata dai garibaldini ai primi di dicembre, le forze partigiane si attestano sulle alture alla sinistra della Staffora, mentre a Peli e a Coli le brigate GL sono impegnate in furiosi combattimenti. L’attacco e lo sfondamento avvengono il 12 dicembre, nella nebbia e nella neve. L’affondo è diretto verso 1’alta Valle Staffora. I tedeschi attuano l’ampia manovra avvolgente che dalla valle, dal Tortonese e dalle valli Liguri converge sui crinali dell’ Antola. È il momento dei massimo ripiegamento: Giovà, Capannette, Monte Ebro, Val Borbera, Capanne di Carrega (dove si installa un’infermeria), Cantalupo Ligure sono i luoghi della ritirata. Tanto drammatica è ormai la situazione che a San Sebastiano Curone i responsabili politici e militari decidono di procedere al momentaneo scioglimento delle formazioni. L’ultima, non meno drammatica fase è caratterizzata dall’epurazione, dallo sfoltimento degli organici e dall’ occultamento, come condizione essenziale per la sopravvivenza del movimento partigiano. Si dà corso all’operazione di ritorno a piccoli gruppi alle posizioni di partenza attraverso le maglie dello schieramento nemico. Non che il nemico dia tregua alle formazioni o al gruppo tornato ai luoghi di origine. Si tratta di contrapporre, semmai, con quell’operazione, ad una tattica mobilissima una tattica altrettanto mobile. Tra dicembre e febbraio la lotta si viene frantumando in una serie di episodi nei quali si distingue la ferocia della Sichereits Abteilung e il cui minimo denominatore è una caccia all’uomo che si lascia alle spalle una scia di violenza e di voglia di vendetta. È l’inverno delle ‘buche’ scavate nella neve. Non si spara se non si è attaccati, non solo per la disparità delle forze in campo, ma anche per salvare la popolazione, provatissima, da sicure rappresaglie. La ripresa è, però, evidente fin dai primi di febbraio, quando il grosso delle forze che ha operato il rastrellamento abbandona la zona e il fronte torna ad avanzare verso Nord. Restano i presidi, per lo più fascisti, di varia entità. Anche in Oltrepò si assiste a una cauta e lenta riorganizzazione. Il 18 febbraio il Comando Divisione dell”’Aliotta” si ricostituisce a Ca’ d’Agosto, presso Torre degli Alberi; poi torna a Zavattarello. Quattro giorni prima la primavera era arrivata in anticipo con lo scontro, condotto in campo aperto, delle Ceneri. Ai primi di marzo, con la difesa di Zavattarello e la battaglia di Costapelata è definitivamente respinto l’estremo attacco concentrico dalle valli Scuropasso e Ardivestra, che mirava a scardinare il sistema difensivo faticosamente ricostruito e imperniato su Zavattarello. A metà marzo Varzi, abbandonata dai nazifascisti, è ripresa. Tra la fine di febbraio e i primi di aprile si riorganizzano le formazioni. Il 27 febbraio a Casa Marchese è costituito il Comando operativo “Settore Oltrepò pavese”, ancora subordinato alle direttive del Comando VI Zona. L’accordo, ribadito e perfezionato il 9 aprile sancisce l’assetto finale delle formazioni dipendenti dal Settore Operativo Oltrepò Pavese. All’ordine del giorno si pone, ormai, la discesa in pianura, che ha come obbiettivi i centri maggiori posti lungo la via Emilia. L’ “Aliotta” discende la Val Staffora, puntando su Voghera; la “Gramsci” si dirige su Casteggio; la “Masia” su Broni; la “Matteotti” su Stradella. L’insurrezione dura in provincia di Pavia poco più di quattro giorni. Attraversato il Po e occupato il capoluogo fin dal pomeriggio, le formazioni dell’Oltrepò Pavese sono le prime ad entrare in Milano la sera stessa dei 26 aprile, due giorni prima di quelle dell’Ossola e cinque giorni prima degli americani della V Armata.
Dante Alighieri nel Castello di Oramala
Il sommo poeta fu ospite nel castello di Oramala, dopo il suo passaggio in Lunigiana dai Malaspina. Il Castello, ma soprattutto Obizzo Malaspina, fu dimora di cortigiane e trovatori provenienti dalla Provenza. Oggi si svolgono molte manifestazioni culturali che riportano la poesia, le storie e le leggende legate al castello. All’interno del castello, in una delle stanze aperte al pubblico, potete vedere una scultura della testa del sommo poeta.
Il fantasma del Castello di Oramala
La leggenda chiama, ogni 25 dicembre a mezzanotte, gli spiriti dei proprietari del castello, l’ imperatore Federico Barbarossa e dei marchesi Malaspina. Questi si permettono anche di accendere, per alcune ore, la luce della terza sala della torre. Poi le luci vengono spente e tutto ritorna alla normalità. Forse vogliono festeggiare il Natale come tutti i cristiani.
Il fantasma del castello di Zavattarello
C’è una stanza, all’ultimo piano del castello Dal Verme, dove sono avvenuti numerosi strani eventi che restano tutt’ora senza una plausibile spiegazione. Essi sono attribuiti allo spirito di Pietro Dal Verme, che in quella camera da letto dormiva nel XV secolo.
(approfondisci qui la storia e la leggenda del fantasma) http://www.zavattarello.org/castello_fantasma.html
Leggenda del castello di Santa Margherita Staffora
Salendo verso la chiesa di Santa Margherita Staffora, posta su un cucuzzolo visibile da molto lontano e riferimento panoramico per chi si inoltra sui sentieri della Valle Staffora, si possono notare i resti in pietra di quello che era un castello dei Malaspina. Si racconta che uno dei proprietari del castello dei Malaspina “amava” liberarsi delle proprie mogli, gettandole nel pozzo.
Leggenda del Castello di Cella di Varzi
Percorrendo i sentieri che collegano Cella di Varzi alla valletta della Lella, possiamo scorgere i resti di quello che era un castello malaspiniano. La storia racconta che il cortigiano dell’epoca, Bernabò Malaspina, venne assalito dalle truppe degli Sforza che ne distrussero il castello e uccisero Bernabò.
Si racconta che il fantasma di Bernabò torni per rivivere i momenti più felici
La leggenda della costruzione del Castello di Stefanago
La leggenda racconta la storia della nascita del Castello eretto in tre notti. Per chi ha visto il castello e vede la imponente torre, si può dare spazio alla interpretativa e al sogno di chi e come abbiano effettuato questa impresa.
La leggenda del gigante del Castello di Stefanago
La leggenda racconta una storia legata alla “Vigna del Lupo” (uno di vini di punta della Azienda del Castello di proprietà dei Baruffaldi), che portò in questi luoghi un uomo imponente, appunto un gigante, che ottenne di lavorare la terre attorno al castello, in cambio di ottenere un ottimo vino da un pezzetto di terra incolto. Naturalmente il gigante si mise al lavoro, ottenendo i favori del cortigiano al risultato di un ottimo vino.
Amori tra i cortigiani dei Castelli di Stefanago e Nebbiolo
La storia è quella tra Anselmo, figlio del signore di Stefanago, e Bianca figlia del signore di Nebbiolo (frazione di Torrazza Coste). Un amore bellissimo per la sua storia che li vede legati ed allo stesso tempo tragico per gli eventi che legarono quei periodi e per il finale che portò alla morte dei due innamorati. Gli eventi tragici riguardavano il sanguinoso odio che legava i due signori, che portò alla morte del signore di Nebbiolo. I due innamorati iniziarono la loro storia quando Anselmo venne incarcerato nel castello di Stefanago e la bella Bianca, nutrita di compassione ma anche di sentimenti forti, iniziò a prendersene cura, contro il volere del padre, qui la fuga nel castello di Nebbiolo. La ivalità dei genitori sfociò nella morte di Bianca proprio dalle mani del padre e la morte di Anselmo sul capezzale della sua amata, alla notizia alla notizia della morte del padre ucciso anch’esso dal signore di Stefanago. Furono sepolti nella chiesetta del castello, che possiamo vedere ancora oggi all’entrata del castello. nei pressi del bel giardino all’italiana.
Le fave e le predizioni.
A Voghera e nell’Oltrepò Pavese si cantava e si mimava il gioco de “La bela vilana la pianta la fava… facendo in questa guisa», L’origine della danza risaliva ad una ritualità contadina che si usava per propiziare un buon raccolto. Le fave, che per prime sbucavano dal terreno primaverile erano il primo simbolo della resurrezione.
La fava, antico ingrediente anche per i filtri delle fattucchiere è giunta attraverso i tempi con la sua carica di virtù magica legata al cuscino usato dalle donne lombarde per predire fortuna o sfortuna e nozze più o meno felici. Il meccanismo del rito era il seguente: sotto il cuscino delle donne si pongono tre fave dentro un sacchetto, una intatta, una semisbucciata, una sbucciata interamente. Se al mattino successivo veniva estratta per prima dal sacchetto la fava sbucciata interamente ci sarebbero state disgrazie o un marito povero in caso di nozze.
Cegni e la povera donna
“A Cegni, narra la leggenda, è giorno di nozze ingiuste. Una “povera donna” ( povra dona) èdestinata a un ” brutto” (‘I brutt) marito, che però è il signorotto del paese. Nonostante questo la povera donna fugge via.
II ” brutto” però non sembra rassegnarsi e continua la sua disperata ricerca per le .valli la “povera donna”, senza trovarla. Questa fuga senza ritorno tuttavia viene risolta dalla fantasia popolare, allo scopo di poterne trarre una più efficace rappresentazione, facendo incontrare il “brutto” e la “povera donna” in un casolare dove la giovane si era nascosta; l’ uomo disperato cerca di convincerla a ritornare in paese con lui.
Pippone Malaspina
L’Oltrepò non solo è ricco di storie di fantasia inventate dagli anziani per riscaldare gli animi nelle lunghe sere d’inverno passate attorno al fuoco del camino. Vi si tramandano anche alcune vicende che sembrano inventate, ma pur nella loro eccezionalità sono drammaticamente vere. Una di queste risale alla fine dell’Ottocento ed è ambientata a Varzi. Si tratta di un caso d’antan di strage omicida, uno di quelli che oggi farebbe discutere fiori di criminologi e riempirebbe pagine di giornali e trasmissioni televisive per settimane. Ma anche allora l’enorme impatto emotivo dell’accaduto andò oltreVecchia porta i limitati confini comunali ed ebbe una eco inimmaginabile: un’intera famiglia sterminata con crudeltà da un carnefice privo di scrupoli.
Dobbiamo tornare al 1863, in una frazione poco distante da Cecima. In una casetta fra i campi abita la famiglia Tamburelli: la sessantenne vedova Teresa, il figlio Giuseppe con la moglie, anch’essa di nome Teresa, e il loro bimbo di pochi mesi. Una mattina di fine marzo un contadino della zona passando vicino alla casa dei Tamburelli ode dei gemiti. Si avvicina all’abitazione, dove la porta è socchiusa: capisce che a piangere è il bambino di Giuseppe. Dopo una breve esitazione entra e si trova di fronte a una scena agghiacciante: i tre membri adulti della famiglia giacciono a terra, morti, in un lago di sangue. I loro corpi sono dilaniati da numerosi colpi di scure, inferti con incredibile violenza e spaventoso accanimento, tanto da averli sfigurati.
I Carabinieri avviano subito indagini serrate, basate solo su vaghi sospetti e pochi indizi. Ma arrivano inaspettate testimonianze: in paese qualcuno ha visto strani movimenti nella notte precedente al ritrovamento dei cadaveri. L’attenzione degli inquirenti si indirizza verso un oste di Varzi nel cui locale Teresa si fermò il giorno prima della strage con una sua amica, dopo esser andata al mercato di Varzi. Qualcuno ha sentito la donna vantarsi a voce un po’ troppo alta delle ricchezze di famiglia e sembra che il titolare dell’osteria fosse particolarmente attento al racconto dell’ignara Teresa. L’oste, un omone grande e grosso, si chiama Pippone, al secolo Giuseppe Malaspina. Alle spalle un passato torbido, fatto di furtarelli e scazzottate. Un testimone lo ha visto assieme con il figlio Angelo aggirarsi nella zona dell’abitazione dei Tamburelli la mattina del delitto.
I due negano con forza ogni addebito, ma il ritrovamento dei loro vestiti sporchi di sangue, nascosti con cura in una stalla, dà rinnovata forza agli investigatori. Padre e figlio cercano di sviare le indagini, ma alla fine sono rinviati a giudizio: il processo, celebrato ad Alessandria, vede una condanna esemplare per entrambi, commisurata all’efferatezza del delitto. Peppone viene mandato a morte per impiccagione, mentre il figlio ai lavori forzati. L’esecuzione di Peppone sembra sia stata l’ultima eseguita nel Regno d’Italia.
Bertoldo
Alcuni studiosi affermano che il famoso contadino visse in questi luoghi portando lustro a paesi come Mondondone. Si dice infatti che sia vissuto a Cà Bertuggia, sia poi emigrato per tanti anni e tornato a Casa Reggia (Mondondone), donatagli dal Re Alboino per aver apprezzato le sue qualità di arguto contadino gli portò il sorriso. I vecchi del luogo ricordano di aver visto il pozzo ed il forno che, si dice, furono parte della dimora del contadino. La leggenda riporta fatti che sono divenute poi tradizione, ne dimostra il fatto che in piazza a Retorbido possiamo ammirare la statua del “villano” in sella al suo asino. Il cantastorie e scrittore bologense, Giuli Cesare Croce (Le sottilissime astutie di Bertoldo anno 1606), scrisse e raccontò le innumerevoli astuzie e furberie di Bertoldo. Un famoso film “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” (1984) (interpretato da Ugo Tognazzi nella parte di Bertoldo,
Maurizio Nichetti nella parte di Bertoldino, Alberto Sordi nella parte di fra Cipolla, Lello Arena nella parte di re Alboino, ed Annabella Schiavone nella parte di Marcolfa) ne ricorda fedelmente la storia nel periodo di vita alla corte del Re Alboino.
Annibale
Raccontata da molti è la storia mista a leggenda del passaggio di Annibale in questi luoghi.Tra battaglie storiche, rimane via la leggenda che narra di Annibale che, caduto da cavallo, si ferì alla mano sul Monte Lesima e “lesit manu” ci porta all’origine del nome del monte
La piccola vedetta Lombarda
Lo scrittore Edmondo De Amicis, durante un periodo di permanenza a Mondondone, ne raccontò la vicenda in un episodio del libro Cuore. Alcuni storici ne individuano la vera esistenza in un orfano di dodici anni figlio di una famiglia residente nei pressi dell’imponente pioppo, visibile ancora oggi percorrendo la tangenziale che unisce Voghera a Casteggio (un cartello ne indica la posizione). La storia racconta del ragazzo che salì sull’albero ad avvertire le truppe franco-piemontesi dell’arrivo degli austriaci, durante la battaglia di Montebello nel 1859, che però rimase eroicamente ucciso.
L’om salvadi
Ancora Nebbiolo protagonista di leggende e storie d’Oltrepò.
Per tutti è stato semplicemente l’om salvadi, cioè una persona asociale che viveva isolata. In realtà sapere chi sia stato veramente l’inquilino della grotta che ancor oggi possiamo trovare vicino a Nebbiolo, nei pressi di Torrazza Coste, è impresa assai difficile. Non c’è anziano della zona che non ne abbia sentito parlare, ma la cultura popolare si limita ad alcuni cenni che sanno di leggenda.
Si dice, infatti, che il misterioso om salvadi rimanesse sempre rifugiato nel suo anfratto, tranne che per un giorno l’anno: il 2 febbraio, che coincide con la festa religiosa della candelora in cui si benedicono le candele. Dal comportamento dell’eremita in quella data la gente soleva trarre auspici di natura meteorologica: se l’uomo usciva dalla grotta per fare asciugare il suo pagliericcio, allora l’inverno sarebbe proseguito ancora a lungo; viceversa se l’inquilino rimaneva al sicuro nel suo rifugio, allora la cattiva stagione sarebbe terminata presto. Questa storiella, che è riportata anche dallo storico locale Angelo Marini in un suo libro su Torrazza Coste, la dice lunga sul mito creato dalla fantasia Insegna Om salvadi popolare. Tuttavia non mancano ipotesi scientifiche sull’esistenza del misterioso uomo selvatico, che possiamo trovare sempre nel libro di Angelo Marini; secondo lo studioso alcuni ricercatori ritengono che la grotta sia trogloditica. Si tratta cioè di un anfratto naturale che nella preistoria veniva abitato dagli uomini primitivi.
L’ipotesi è senz’altro affascinante, perché ci porta assai indietro nel tempo, presumibilmente di milioni di anni. Certo, se davvero la storia di questa caverna è così vecchia, allora non è inverosimile pensare che i fantomatici “uomini selvatici” che vi hanno abitato nel tempo siano stati più d’uno. Non a caso i più anziani si ricordano che nei primi decenni del secolo scorso i contadini della zona solevano semplicemente rifugiarsi nell’anfratto quando venivano sorpresi dal cattivo tempo durante il lavoro agreste: i segni di fumo ancor oggi visibili lungo le mura potrebbero risalire a questo periodo.
Tra ipotesi fantasiose e verità storiche da indagare, non resta che visitare il luogo: uno dei sentieri turistici creati dall’associazione “Torrazza Produce” passa proprio davanti alla caverna, a poco più di un chilometro da Nebbiolo; fra l’altro, in questo paesino ancora si trovano i resti di un maniero medievale, la figlia del cui castellano si racconta si fosse innamorata del figlio di Stefano II del castello di Stefanago, come riporta anche Defendente Sacchi nel suo romanzo “La pianta dei sospiri”. Ma questa è un’altra storia…
Canevino
Durante la sosta in paese al passaggio di San Colombano, un bambino muto recuperò il dono della parola
Redavalle
In una piazzetta di Redavalle sembra che esistesse una colonna che nessuno riusciva ad abbattere. Operai incaricati del lavoro hanno dovuto rinunciare perché sembra che mani invisibili tempestassero di legnate chiunque si apprestasse ad rimuovere la colonna.
Il principe Contardo d’Este
Nel 1249 giunse a Broni, diretto a Santiago de Compostela, il giovane principe Contardo d’Este; ammalatosi gravemente, morì a Broni, dove è tutt’ora sepolto e dove ben presto, anche in seguito ad alcuni prodigi (la leggenda narra che, al momento della sua morte, le campane delle chiese si misero a suonare da sole ed attorno al suo corpo si accesero splendenti fiammelle), si creò una intensa devozione verso la sua figura, tanto da farne il santo patrono cittadino.
I miracoli della grotta di San Ponzo
Ponzo, la cui dimora da asceta è identificata nelle grotte che si trovano nei pressi dell’omonimo borgo, in val Staffora, era figlio di un imperatore romano. Convertitosi al Cristianesimo si sarebbe rifugiato in queste grotte per sfuggire alle persecuzioni. Scoperto dai pagani, venne decapitato, e le sue spoglie, conservate dai pochi seguaci, furono ritrovate nel medioevo. E’ stato poi santificato. Ancora oggi la figura del santo è oggetto di devozione da parte dei locali.
La tradizione locale riferisce che si sono verificate numerose guarigioni di malattie renali. I “prodigi” sarebbero avvenuti dopo un complesso rituale che vede l’ammalato passare attraverso uno stretto cunicolo per poi giacere per qualche tempo a terra in una delle grotte, come se fosse coricato.
Sant’Alberto di Butrio
I resti del primo Principe di Galles, Edoardo II re d’Inghilterra, riposano realmente sotto il sontuoso monumento dell’abbazia di Gloucester fatto erigere dal figlio o sono sepolti nell’antico cimitero dei monaci di Sant’Alberto di Butrio?
Nell’abbazia di Sant’Alberto ci sono solo due tombe : una dove riposa Alberto il Santo e l’altra dove compare una scritta “Qui è la tomba dove fu sepolto Edoardo II re d’Inghilterra, che sposò Isabella di Francia e al quale successe il figlio Edoardo III”.
La sepoltura d’un re dell’Inghilterra medievale tra i monti del nostro Appennino sembra strana anche perchè non è riportata in nessun testo storico.
La storia ufficiale dice che, dopo che fu costretto ad abdicare in favore del figlio Edoardo III, Edoardo II fu rinchiuso nel castello di Berkeley dove venne ucciso il 21 settembre 1327. Questa la storia ufficiale, quella non ufficiale racconta che segretamente fu fatto fuggire e, per parecchi anni, frequentò abbazie e conventi facendo vita da penitente per redimersi dai suoi peccati. Sembra che sia vissuto per due anni in un convento presso Acqui Terme, poi nel castello di Cecima, nell’oltrepò ed infine a sant’Alberto dove poi morì.
Varzi e San Giorgio
La leggenda di San Giorgio e il Drago narra che di tanto in tanto questo terribile drago uscisse da un lago per portare morte con il suo alito. Le popolazioni della zona per evitare ciò, ogni volta che arrivava gli offrivano in dono delle giovani vittime estraendole a sorte. Un giorno venne estratta la figlia del Re. Rassegnata sulla riva del lago aspettava il drago, quando all’improvviso arrivò Giorgio, giovane cavaliere originario dalla Cappadocia. Il guerriero, quindi, sguainata la spada, rese inoffensivo il Drago che venne portato legato all’interno della città. Giorgio rassicurò i cittadini che era stato mandato a sconfiggere il Drago in nome di Cristo, perché si convertissero e venissero battezzati.
La leggenda legata alla cittadina di Varzi ( di cui San Giorgio è il Santo Patrono ) , riguarda delle apparizioni avvenute a scadenze regolari di due volte l’anno per sette anni consecutivi. Il santo soleva apparire, arrivando a cavallo del Drago, a una giovane donna di nome Maria. I due parlavano delle loro invidie reciproche, per Maria, Giorgio era fortunato di poter essere immortale e di poter parlare con angeli e serafini in cielo, il Santo, dal canto suo, avrebbe voluto essere umano.
Maria racconta il suo segreto a un’amica, ma un’altra, passando vicino alle due, sente il discorso e subito, invidiosa, corre a confessarlo al Parroco. I due, allora, sperano di ricavarne dei vantaggi, lui una promozione a Vescovo e lei dei favori personali. Esortano quindi Maria a una confessione. Non appena lei rende note le sue apparizioni, il Parroco le chiede subito se lo potesse invitare in piazza, affinchè tutti lo potessero vedere, altrimenti sarebbe stata punita con la scomunica o con l’esilio dal paese.
La povera donna non poteva fare altrimenti, al rintocco dell’ Ave Maria della sera appare San Giorgio che consola subito Maria e confidandole che preferisce stare lassù in cielo piuttosto che giù in terra dove gli uomini non credono se non vedono.
Si avvicina allora la donna pettegola e chiede al Santo di potergli chiedere dei favori, ma non davanti a tutti, così lui le dice di salire sulla sua nuvola, per poi sparire un attimo dopo.
Tre Croci all’Antola
In una piccola radura nel bosco, facendo attenzione a sinistra fra le piante, si possono notare tre vecchie croci di legno, ricordo di tre paesani di ritorno dalla stagione di lavoro in risaia che, dopo un lungo viaggio a piedi per la val Borbera, erano ormai quasi arrivati a casa quando furono lì sorpresi da una bufera e morirono assiderati”
La Grotta dei Briganti
Nell’Alto Oltrepò Pavese esiste un percorso che da Fego passa per Brallo, fino a giungere a Varzi.
Tale sentiero si inoltra nella valletta del rio Montagnola, un rivolo sassoso che scorre fra i faggi e carpini. Ad un certo punto si giunge davanti alla cosiddetta Grotta dei Briganti, costituita da due enormi massi grandi e massicci quanto una casa, sono poggiati l’uno contro l’altro e formano una grotta larga abbastanza per contenere cinque o sei persone.
La leggenda vuole che questo luogo, pervaso da un’atmosfera magica, sia abitato dallo spirito dell’ultimo essere di una stirpe antica, in parte uomo e in parte animali. Nei tempi andati ci fu chi disse di averlo visto correre nelle notti di luna piena lungo il greto sassoso del torrente, mezzo uomo e mezzo capro, o cavallo. Anni fa nelle veglie intorno al fuoco o nelle stalle si raccontava come qualcuno avesse scorto le sue tracce nella stretta piana.
La radura dei grandi massi coppellati ha un’atmosfera magica, sacrale, e l’aspetto della piccola grotta ricorda molto quello dei “ripari sotto roccia” tipici della preistoria appenninica. La grotta forma un camino naturale, è comoda, asciutta, con l’entrata nascosta dai cespugli di maggiociondolo. Un piccolo fuoco di foglie e d’erba, acceso nelle coppe scavate nei massi, può essere visto dalle cime e nella valle per chilometri e chilometri .
Non è difficile ipotizzare che in tempi remoti la radura dei grandi massi fosse un luogo di culto, visto che ancora oggi il fascino delle grandi pietre che si levano contro il sole colpisce chiunque si trovi a passare da quelle parti.
Un’altra leggenda narra che lì, vicino alla grotta, le donne scontente della loro vita potessero incontrare uno straniero, giovane forte e bello come il demonio. Vederlo e farsi prendere il cuore dalla passione era inevitabile, ma ogni donna che l’avesse guardato e si fosse data a lui, si sarebbe poi ritrovata ad attendere inutilmente accanto ai grandi massi nella radura, giorno dopo giorno, consumandosi d’amore fino a morire.
La palla di cannone a Montebello
Oltre al celebre monumento chiamato “la Bell’Italia” che ricorda i caduti della battaglia del 1859, Montebello ha un altro piccolo simbolo di quell’episodio d’arme che fece parte della Seconda Guerra d’Indipendenza. Si tratta di una palla di cannone che si conficcò nel muro orientale della chiesa parrocchiale di Genestrello.
Non sappiamo se il 20 maggio del 1859 a Montebello ci fosse un po’ di foschia, come spesso accade nella fascia pedecollinare. Di certo c’era una gran confusione, Palla austriaca malgrado quello tra la cavalleria piemontese e la fanteria francese contro l’esercito austriaco sia stato soltanto uno scontro di secondo piano della Seconda Guerra d’Indipendenza. Nel primo pomeriggio gli attacchi francesi si concentrarono proprio nella zona di Genestrello. Centinaia e centinaia di soldati dislocati in un’area di pochi chilometri quadrati, disposti per cercare il modo migliore di sopraffare il nemico. I fatti d’arme più importanti avvennero nel primo pomeriggio, poco dopo mezzogiorno. E fu probabilmente in quella fascia oraria che da un cannone austriaco partì il colpo che colpì il muro della chiesa. Un tiro probabilmente errato, frutto di un calcolo affrettato o chissà di quale imprevisto. Certo le solide mura della chiesa hanno incassato bene e ancora oggi una targa ricorda quel fatto d’arme, insignificante nel resto del contesto in cui accadde, ma certo curioso.
Per la cronaca, la Storia ci racconta che gli austriaci riuscirono a respingere la prima offensiva francese, ma non furono in grado di sfruttare la possibilità del contrattacco. Verso le 15.15 un secondo attacco francese, agevolato da ripetute cariche dei Cavalleggeri di Novara, ebbe maggiore successo e gli austriaci furono costretti ad abbandonare l’abitato.
Pizzofreddo, Carlo Magno e la bara ghiacciata
Si dice che sia stato Carlo Magno a dare il nome al nostro borgo. L’ imperatore si fermò in Valle Versa accampandosi dove oggi c’ è la piazza principale. La mattina seguente si svegliò con la barba gelata e decise ribattezzare questi posti con il nome di “pizzo freddo”. Come simbolo abbiamo scelto l’ antica dogana sabauda che segnava il confine tra il ducato di Parma e Piacenza e il regno dei Savoia».
La leggenda del vino Buttafuoco
Tutto parte da una nave della marina austro-ungarica chiamata Buttafuoco. Gli intenditori di vino ma anche i non intenditori, conoscono il vino Bottafuoco , che ha dato lustro a quella che è nominata come una delle doc più importanti, L’Oltrepò Pavese. Tornando a ritroso, ai tempi della guerra d’indipendenza combattuta a Montebello della Battaglia nel 1859, un gruppo di marinai austriaci dovettero ripiegare a forza al riparo dietro le loro divisioni di terra, visto lo svolgimento avverso delle truppe austriache durante questo conflitto. I marinai invece si fermarono in una cantina, delle colline sovrastanti Stradella, e si ubriacarono di vino rosso. Il vino prese il nome da quella nave e dal ricordo di questa storia.
La leggenda del vino Sangue di Giuda
Altro vino legato profondamente a questi luoghi, e più precisamente a Canneto Pavese, è il Sangue di Giuda, vino amabile e ottimo con i dolci al cioccolato. La leggenda porta in questi luoghi Giuda, dopo che venne resuscitato da Gesù, sotto altre spoglie umane, vistosi riconosciuto dai locali e condannato a morte come traditore di Gesù, in cambio della salvezza promise di risanare dalle malattia le viti di questi luoghi. Gli venne salvata la vita ed il vino venne chiamato con il suo nome